Franco Coletta

di webmaster
tratto dal volume Racconti d'inverno
disegno di Giovanni Ferrero

Erano i giorni prima del Natale.

I fratellini si erano appena svegliati, richiamati dalla voce della nonna, che in cucina preparava la colazione a base di latte appena munto. Si erano vestiti in fretta. La stanza dei "ciappùn", una delle due riservate agli ospiti, era sempre immersa nell'umidità e nel gelo, visto che solo in parte era pavimentata con assi di castagno, l'altra metà era appunto rivestita di "ciàppe d'àrvegu" (lastre di pietra grezza), rese lisce dalla frequentazione. Tale tipologia costruttiva dipendeva dalla presenza, nella parte sottostante ai "ciappùn", di un "canièlu", ovvero un "canivello", o dispensa, ove i vicini di casa tenevano a stagionare le forme di formaggio locale.


Un tempo, la casa accanto apparteneva a Gian Maria Sbarbaro detto Trexìn della famiglia dei Careghè, fratello di quell'Andrea, detto Driètta, avo dei fratellini morto a Roma nell'Ottocento.

Ora apparteneva ad Agostino Sbarbaro, detto Tassìn, della famiglia degli Stècche, conosciuto in parrocchia e sulle fiere di bestiame come commerciante.

Quel ramo dei Careghè, aveva assunto da tempo un altro soprannome. Ora erano i Maxìn-a. Dal nome di Tommasina Biggio vedova del Driètta, che aveva allevato il figlio Antonio, detto Tògnu, non senza sacrifici. La sorella della Maxìn-a, la Sabètta, ovvero Elisabetta, aveva sposato il Gio Maria, detto Trexìn, fratello del Driètta.

Ecco perchè la casa accanto, divisa probabilmente in origine tra i due fratelli solo con un "paià", ovvero una tramezza di tavole, aveva il "canivello" che s'inseriva come un gioco d'incastri, sotto la camera detta dei "ciappùn". Nella camera, un letto di legno



La camera detta "di ciappùn" (disegno di Gianni Ferrero)

lavorato dai pomi torniti, rammentava la passata agiatezza della casa, quando il bisnonno Tògnu, era a Roma col nonno Drìa, e commerciava in carbone, poi le cose non andarono per il verso giusto.

Il Drìa, già in là con gli anni, faceva il mestiere di "leità". Raccoglieva il latte, girando le frazioni della Parrocchia di Priosa d'Aveto, e lo portava a Parazzuolo, centro di raccolta.

Si portava appresso la figlia Adele che poi lo avrebbe sostituito nel mestiere.

La quantità di latte raccolto presso le varie famiglie, dopo la misurazione, era trascritta su un libretto. Ciò sarebbe valso qual documento per la riscossione del denaro, da parte delle stesse.

Sopra il letto v'era una riproduzione di una Madonna fra uno stuolo d'angioli. Le candele votive pendevano nei pressi dei pomi. Su una cassapanca v'era un orologio dorato incastonato in una rappresentazione di gusto barocco dalla quale emergeva un giovincello che suonava uno zufolo, il tutto coperto da una campana di vetro, cosa strana a vedersi in quelle plaghe.

Era, probabilmente il frutto di qualche eredità toccata a nonna Clementina. La Clementina detta Crèmme dal nonno, ma conosciuta presso i parrocchiani come Crementìn-a, faceva, oltre i consueti lavori delle donne dell'Appennino: madre, lavandaia, addetta al lavoro nei campi, pastore, ecc, anche i mestieri di levatrice e "strapuntèa", ossia acconciatrice di materassi.

A quei tempi, le famiglie dei contadini benestanti acconciavano il materasso con la lana delle pecore, quelle meno abbienti avevano "strapùnte" di crine, o riempite con altri palliativi.

I fratellini scesi dabbasso avevano salutato lo zio che faceva la spola con la stalla, poi avevano mangiato avidamente il caffelatte, nel quale avevano "pucciàu", ossia immerso, il pane di casa, fatto dalla nonna, col forno della cucina economica, dalla grande piastra radiante.

Presso la canna fumaria erano appesi ad asciugare, sopra stendini, alcuni pezzi di biancheria e delle salviette. Veli di vapore volteggiavano nell'aria.

Durante la notte era scesa una piccola spolverata di neve, che aveva ravvivato il manto di quella depositata in precedenza che tendeva ad assumere un colore vitreo.

I fratelli calzando gli scarponcini, ordinati al Baffìn, artigiano di Favale di Malvaro, si diressero vociando verso la stalla a salutare le mucche e le giovenche.

Lo zio Frèdo, o Alfredo, stava spazzando la stalla.

La "bàzza", o letame, era spazzata via da sotto le mucche. Nell'occasione le bestie erano fatte "piggià in pè", ossia fatte alzare dal battuto sul quale erano state sistemate a mo' di letto delle felci.

Le "firèccie", o felci, stipate in un angolo della stalla di sotto erano portate a quella di sopra alla bisogna.

"U ruu", ossia il letame, era spazzato nella canaletta posta sul fondo del battuto ove finiva anche l'orina delle vacche.

Si raccoglieva il tutto con una pala, indi, caricatolo sulla carretta di legno dalla ruota di ferro, si portava nel letamaio che ogni famiglia aveva in un appezzamento di terreno poco distante dalle case del paese.

A contatto con l'aria gelida, il letame emetteva vapori e l'olezzo si spandeva intorno, ma allora era normale. La puzza di letame era "l'acqua di colonia" che emanava dai corpi dei contadini.

Salutato lo zio, i fratelli si diressero sotto la "ôta". Sotto la "ôta", o volta, residuo di un passato mercantile, si radunavano, dopo aver spazzato le stalle, gli uomini del paese per ripararsi dall'intemperie o per fare due discorsi.

I ragazzini, non trovandovi alcuno, si diressero sull'aia ove sapevano che avrebbero trovato gli altri "battaggìn", ossia i ragazzi del paese, e dove si organizzavano battaglie a palle di neve.

Nel tragitto furono bersagliati da palle ben pressate, tirate a tradimento da alcuni che si erano "buttati" nei prati presso le case, nascondendosi dietro le sagome dei salici contorte dal gelo.

La battaglia si sviluppò per qualche tempo. Poi qualcuno propose di andare a far le "schigèle", ossia andar a scivolare sul ghiaccio del fiume. La torma dei ragazzi si diresse verso il nuovo obiettivo. Risalita la "mascèra", ossia il muretto a secco che cinge le strade comunali o quelle di una certa importanza, i più grandi finirono sul prato innevato. Da lì bersagliarono ancora i più piccoli.

Questi ultimi in quel camminamento, posto più in basso rispetto al livello dei campi, avevano poche opportunità di rispondere al tiro.

La brigata, giunta alfine al fiume, valutava la consistenza della lastra di ghiaccio e poi ognuno prendeva la rincorsa e si lasciava scivolare sull'improvvisato "Palazzo del ghiaccio dei poveri". Ogni tanto i meno esperti finivano a gambe all'aria. Le mani, già provate dalla battaglia con le palle di neve, a contatto con la fredda superficie, toccata nell'atto di raddrizzarsi, diventavano all'improvviso paonazze. Bisognava sfregarle più e più volte perchè tornassero di un colore accettabile. A volte prendevano i geloni, e si doveva abbandonare il gioco, altre volte s'incrinava la lastra di ghiaccio e si doveva sospendere il tutto alla ricerca di un altro punto.

Ecco... il vociare dei ragazzi si era all'improvviso zittito. Alcuni erano stati affascinati dal motteggiare di un signore che giungeva dalla strada della "Crosa du Mòro", presso Calzagatta.

I bimbi, in breve, erano rivolti al nuovo interlocutore. Poi risuonò una voce "u l'è u Pippòttu". Era costui Giuseppe Biggio di Priosa, maestro nell'arte degli insaccati.

I ragazzi presi da una nuova eccitazione, si erano come dimenticati del loro gioco.

Qualcuno già si avviava su verso la strada delle "mascère", che rasentava il "Ma'granìu".

Giunti presso il macello si erano fermati a qualche distanza, tenuti a bada dalle urla dei paesani, che li invitavano a stare lontani, perchè era pericoloso.
I fratellini avevano intravisto il papà nel crocchio degli uomini, che nelle occasioni speciali diventano oltremodo solidali. Dopo qualche tempo, l'attesa era diventata palpabile...

Ecco sopraggiungere, dalle stalle del centro del paese, il porco.

Era tirato per una corda da un tizio, mentre altri due o tre lo incalzavano dappresso. Uno, con una bacchetta in mano, ogni tanto menava scudisciate per convincerlo a proseguire verso il patibolo.

Il maiale grugniva, infastidito da tutti quei comprimari.

Giunto presso il luogo dell'esecuzione, preso come da un presentimento, iniziò a grugnire con più convinzione innalzando il suo canto alla morte.

Disperatamente cercava ora di sfuggire ai carnefici. Tallonato dappresso, benché avesse centuplicato le forze, nel tentativo di opporsi al suo destino, era costretto inesorabilmente ad avanzare.

Ben presto il grugnito divenne un urlo.

Il maiale aveva quasi raggiunto il tavolaccio sul quale sarebbe stato sgozzato.

Gli uomini della villa continuavano ad imprecare contro i bambini che si avvicinavano troppo alla scena.

Intanto, gli addetti al macello andavano innanzi ed indietro con "ramàie" colme d'acqua calda.

Le urla del maiale sgozzato rammentavano qualcosa di terribile.

Da lì a qualche giorno si sarebbero mangiati i "beròdi", i sanguinacci screziati di latte e pinoli, e le "sarazìzze", le salcicce drogate con spezie e pepe, come prodotto e compendio di un magico rito.

 


 

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Pagina pubblicata il 23 ottobre 2005 (ultima modifica: 05.07.2014), letta 9299 volte dal 23 gennaio 2006
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