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Tradizioni culinarie natalizie in alta Val d'Aveto

di Sandro Sbarbaro
da un racconto di Irma ed Alfredo Sbarbaro liberamente elaborato da Sandro Sbarbaro

Un tempo per la nostra gente nei paesi dell'alta Val d'Aveto, in specie in quelli della parrocchia di Priosa, il Natale era un'occasione speciale. Dopo aver stretto la cinghia nel corso dell'anno, i valligiani davano sfogo al piacere della gola.
Il Natale era l'occasione per mangiare come non si era mai potuto fare prima.
A villa Sbarbari la sera della vigilia di Natale la nonna Clementina faceva le lasagne al sugo (probabilmente di funghi, visto che la carne era un lusso). Faceva anche cuocere una gallina. Il brodo ricavato serviva a scaldare lo stomaco ai pių grandi di ritorno dalla messa di mezzanotte, dopo che avevano affrontato parecchi chilometri nella neve, spesso al freddo pungente.

La mattina di Natale il nonno Dria, anziché il solito caffelatte, si dedicava a preparare la "panųnta".
La "panųnta" era una sciccheria da poveri. Consisteva nel tagliare due fette di pane, quindi far scaldare in padella una fetta di carne di maiale. Con la "bagnetta", ovvero col sugo saporito ricavato dalla cottura della carne di maiale, il nonno impregnava una prima volta le due fette di pane ponendole nella padella a contatto col sugo. Poi sistemava di nuovo la padella sul fuoco in modo che la fetta di carne di maiale producesse altro sugo ed intingeva una seconda volta le due fette di pane nella "bagnetta". Infine toglieva la carne dal fuoco e la poneva tra le due fette di pane insaporite.
Insomma, una sciccheria!
I bimbi e gli adulti mordevano con voluttā quelle fette di pane insaporite traendone una sensazione di estrema soddisfazione.

Il pranzo di Natale consisteva in genere in una "fiamanghilla" 1 di ravioli fumanti.
Per il ripieno dei ravioli la nonna usava straordinariamente un "roccio" 2 di carne di maiale, comprata per l'occasione, che veniva prima cotto per fare il "tocco", ossia il sugo. A volte nel sugo venivano aggiunti anche funghi secchi o pezzi di salciccia.
La carne, la salciccia ed i funghi venivano poi sminuzzati sul tagliere. In un pentolino si facevano bollire "e buraxie", le foglie di boraggine, quindi si appallottolavano per far dar loro l'acqua e poi si tritavano.
A questo punto si tritava la cipolla poi si metteva a soffriggere, quindi si faceva passare insieme alla boraggine, poi quando il tutto era freddo si aggiungeva aglio e "persa", maggiorana, quindi uova e formaggio inserendo il trito di carne. Si rimescolava il tutto e si amalgamava.
Cosė si otteneva "u pėn", il ripieno.
I ravioli si ottenevano tirando la pasta sfoglia ottenuta impastando farina, acqua e uova: in genere 1 kg di farina per due uova.
Quindi si spalmava il ripieno su una parte della pasta sfoglia che veniva poi richiusa come un "calzone" con l'altro lembo rimasto libero.
Per dare la forma ai ravioli si usava un piccolo bicchiere da vino che veniva fatto passare velocemente rovesciato sulla pasta sfoglia, alzandolo ed abbassandolo, dando la forma ai ravioli che venivano separati gli uni dagli altri con un apposito strumento "a ručtta" o rotella dentata. Quindi si mettevano a bollire. Giunti a bollitura si toglievano e si condivano col "tocco" e un'abbondante spruzzata di formaggio grattugiato.

A Natale straordinariamente si usava mangiare i mandarini che avevano addobbato, qual palline, l'albero di Natale. La frutta era un lusso: si comprava e si mangiava solo a Natale.
La nonna usava fare anche "u pan duse", una focaccia dolce a base di uova, farina e un goccio di liquore, spruzzata con un velo di vaniglia.
A mezzogiorno del giorno seguente, a Santo Stefano, la nonna faceva gli gnocchi.

 


 

Note

[1] Fiamanghilla: un piatto da portata di forma ovoidale. Il Casaccia a pag. 197 del Vocabolario genovese-italiano, pubblicato nel 1851, usa l'espressione Fiammenghiggia.

[2] Roccio: in dialetto avetano significa "un bel pezzo di carne".

 


 

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Pagina pubblicata il 31 dicembre 2008, letta 4590 volte
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