Valdaveto.net > Cucina, ricette, prodotti tipici, prodotti della terra > La torta di patate
di Cristoforo Campomenosi
articolo già pubblicato, nel febbraio 2001, su La Trebbia
Non si può dire una cosa per scherzo, che subito la gente la prende sul serio. Così chi incautamente nel
dicembre scorso ha scritto su questo giornale che aveva una ricetta particolare per la torta di patate,
adesso si trova costretto a spiegarla a tutte le donne.
Direi che la cosa, per uno che stenta perfino a cucinare un uovo al tegamino, si presenta come un'impresa
ardua, se non ridicola. Quindi non pretenderò di darvi una ricetta con tutti i crismi delle dosi, dei modi
e dei tempi, ma tenterò bene o male di descrivere il modo in cui questa prelibatezza viene preparata al
mio paese. E se provandola in cucina ne sarà venuta fuori una vera schifezza, la colpa non sarà né vostra
né della vivanda (che è veramente gustosa), ma solamente di chi in questa pagina non sarà riuscito a
spiegarvi come si prepara.
Occorre precisare che quella che sto per descrivervi è la torta di patate di "Santo Stefano d'Aveto - capoluogo", molto diversa da quella che si cucina in diverse frazioni della Val d'Aveto, dove viene chiamata anche baciocca: una squisitezza pure questa, ma alquanto differente.
Venendo al dunque, occorrono anzitutto le patate.
Circa la quantità fate voi: io direi che grossomodo per tre-quattro persone ne occorrono un po' più di un chilo. Però ci vogliono quelle di Santo Stefano.
Alt, direte voi, dove le andiamo a scovare?
Premesso che sul luogo ne vengono prodotte centinaia di quintali, ammetto che forse ho peccato un po' di campanilismo, perché tutti i montanari ritengono che le patate del proprio paese siano sempre le più buone. Infatti, sia che voi abitiate a Coli, Cerignale, Ottone, Rovegno, Romagnese, Zerba o Vicosoprano, sarete senz'altro convinti che le vostre
siano insuperabili, per cui usatele pure tranquillamente. Ma almeno utilizzate una qualità che sia
gustosa e non venga dal supermercato: la migliore sarebbe senz'altro la 'Quarantina genovese' (ormai
quasi introvabile [1]), ma io direi che anche la 'Kennebec' o la 'Monalisa' possono andar bene.
Dopo questa lunga e inutile dissertazione sulle diverse varietà (tanto ognuno userà quelle che si trova a
portata di mano), prendiamo le nostre patate, sbucciamole e mettiamole a cuocere in abbondante acqua
salata.
Mentre cuociono prepariamo un soffritto di olio e cipolla tagliata sottile, aggiungendo, se vogliamo,
un po' di ciccioli di maiale tritati minutamente.
Quando le patate sono cotte scoliamole e pestiamole bene nella stessa pentola con un pestello di legno (si possono anche schiacciare in un moderno passa-patate, ma non tutti i buongustai sono d'accordo).
A quest'impasto aggiungiamo abbondante parmigiano grattugiato e il soffritto che abbiamo appena preparato.
Che cosa è venuto fuori?
Un pastone che si può mangiare anche così e che noi chiamiamo prebuggiun.
Per non scandalizzare i puristi aprirò una parentesi precisando che sui nostri monti il prebuggiun non è
esattamente quello che s'intende a Genova.
Quello genovese dicono che tragga le sue origini dai tempi delle Crociate, quando il comandante supremo dei soldati cristiani Goffredo di Buglione, particolarmente ghiotto di un piatto composto di una moltitudine erbe, incaricava i soldati di andargliele e cercare.
I poveri militi, deposte le loro pesanti armature, invece di combattere gagliardamente per la fede,
girovagavano come servette nei prati intorno a Gerusalemme, cercando tutto il giorno le erbe per Buglione,
o pre-Buggiun come dicevano i crociati genovesi.
Il nostro prebuggiun invece è fatto solo di patate e anche l'origine del suo nome dev'essere senz'altro
meno nobile, derivando forse semplicemente dal verbo prebugge, che vuol dire bollire-prima o
bollire-molto.
Prendiamo dunque questo impasto ben amalgamato e stendiamolo su una teglia (preferibilmente di rame) del
diametro di circa 35 centimetri con il bordo molto basso, dopo che il fondo sarà stato unto con olio di
oliva e ben cosparso di pane grattugiato.
Stendiamo, pressiamo, insomma facciamo stare il nostro prodotto
nella teglia. Se i conti sono giusti dovremmo ottenere uno strato spesso circa un centimetro. Direi che
questa è l'altezza massima, perché questa torta è tanto più gustosa quanto più è sottile e croccante.
Dopo averla ben lisciata e spianata con le mani, col dorso di una forchetta tracciamo la superficie
superiore con una riga lungo la circonferenza e con dei raggi che vanno dal centro ai bordi, come un
sole. Questi fregi non hanno una funzione puramente decorativa, ma sono fondamentali per rendere la
superficie più increspata e croccante.
Adesso inforniamo la teglia nella nostra cucina a temperatura di circa duecento gradi e lasciamola per
circa tre quarti d'ora.
Se abbiamo un forno a legna tanto meglio: mettiamocela dopo avervi cotto il pane, e lasciamocela fin che
non è cotta.
E... quando sarà cotta?
Quando la nostra opera avrà raggiunto un bel colore dorato e la torta avrà due bei
strati croccanti sopra e sotto, con in mezzo una sottile zona più morbida.
Tiriamola fuori, stacchiamola dalla teglia facendola scivolare su un grosso tagliere, dove con un coltello
la taglieremo a strisce oblique in modo che ve vengano fuori dei bei pezzi a forma di rombo.
Dopo di che mettiamoci a tavola e mangiamola subito.
Piaciuta? No?
Forse è venuta floscia, carbonizzata, o semplicemente disgustosa: gettiamo il tutto alle galline e andiamo al ristorante, sperando che la prossima volta si presenti meglio.
Alcune fondamentali raccomandazioni.
- La torta di patate va mangiata appena tirata fuori del forno, quando è bella calda e croccante. Per questo bisogna programmare la sua preparazione in modo che sia pronta esattamente per l'ora di pranzo o cena. (Per questo motivo è molto difficile, ammesso che la sappiano fare, trovare questa specialità nei ristoranti della Val d'Aveto).
- È assolutamente vietato l'uso di uova o di qualsiasi tipo di sfoglia. Se le usiamo ne verrà fuori un polpettone, un timballo, uno sformato, un budino o qualcos'altro, ma non venitemela a chiamare torta di patate. Assolutamente da evitare anche aglio, prezzemolo o altri gusti. La superficie superiore non va cosparsa né con olio, né con formaggio, né con pane grattugiato né con altra diavoleria che venga in mente alla massaia. Va soltanto rigata con la forchetta.
- Se ne avanza (cosa molto difficile, se l'avete fatta come si deve) datela tranquillamente al vostro maiale, perché il giorno successivo non sarà più la stessa.
- Nel soffritto non mettete troppo olio, perché la caratteristica della torta di patate non deve essere l'untuosità, ma la croccantezza.
Io i miei consigli ve li ho dati.
Ciò che non posso darvi sono le mani magiche, l'amore e l'esperienza di
mia mamma.
E sono questi, ve lo assicuro, gli ingredienti più importanti.
Nota
[1] Da alcuni anni è nata, proprio allo scopo di rivalutare e fa conoscere questo tipico prodotto della agricoltura genovese, l'Associazione Consorzio della Quarantina
Links
- La baciocca
- Notizie dal Consorzio - Notiziario della Associazione Consorzio della Quarantina
- Gli artigiani di Santo Stefano d'Aveto: i falegnami
- Alpicella e Amborzasco
- La neve gialla
- C'era una volta il Rio dei Molini
- Torrio, il paese dimenticato
- it.discussioni.ristoranti > Torte di verdura del ponente ligure
Pagina pubblicata il 13 febbraio 2007, letta 15996 volte
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