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San Michele de Petra Martina (Villa Cella) ed il suo territorio

di Sandro Sbarbaro

Un tempo fu Pietramartina...
Là dove i monti accarezzano lembi di cielo ed i rivi si fondono nel gorgogliare dell'Aveto.
Pergamene ingiallite han tramandato un evento, la fondazione della cella di San Michele di Pietramartina, che la stupidità dei più tendeva a relegare nel novero d'antiche fole raccontate da poveri contadini, ma al tempo in cui i contadini d'Aveto furono veramente poveri ebbero nel rispetto delle tradizioni e nel senso di appartenenza alla terra le loro radici...

San Michele di Pietramartina, poi Villa Cella, fu certamente uno degli elementi che caratterizzarono questo processo d'identificazione, fungendo da fulcro per un sistema sino allora basato su microcosmi ancora slegati fra loro.
Nell'anno della natività del Signore 1103 il preposito Alberto e sette confratelli fondarono la cella di San Michele di Petra Martina scegliendo un sito, sulla sponda destra dell'Aveto, posto su una importante strada di accesso e transito per svolgere, oltre alle consuete meditazioni e preghiere, sia opere di assistenza ai pellegrini, che lavori di bonifica sul vasto territorio loro sottoposto in seguito alla Conventio con Anselmo abate del monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia, che era la casa madre della minuscola cella avetana.

La primigenia cella di San Michele, fondata dal preposito Alberto e suo fratello, si suppone eretta in un sito posto tra le attuali ville di Costafigara e Villa Cella.
Codesta formula dubitativa ci permette di evitare considerazioni che potrebbero apparire dettate dal desiderio di far coincidere siti e toponimi (vedi Rocca Martina), esercizio alquanto sterile dato l'esiguo spazio, e la consapevolezza che spesso i toponimi si spostano nel tempo sino talvolta a sparire per apparire altrove (come opportunamente suggerisce il prof. Gino Redoano Coppedè).
Certo è che in base alla Conventio, ossia il documento che stabilisce le proprietà che il monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia affitta per 29 anni ai monaci di San Michele de Petra Martina, probabilmente scorporandole dalla corte di Alpepiana, si può ragionevolmente supporre che i confini entro i quali dovevano agire i frati appartenenti alla nuova cella dovevano pressappoco essere quelli attuali del comune di Rezzoaglio.
Infatti il citato: "locum, ubi dicitur Casa Revla" da una parte ha il rivo di Acquapendente, presso cui nasce l'Aveto (più tardi vi sorgerà il confine fra le Podesterie di Roccatagliata e Neirone, il Capitaneato di Rapallo e il Marchesato di Santo Stefano d'Aveto), dall'altro e di sotto confina con terre di proprietari che paiono derivare da consorterie di Arimanni, e di sopra con le terre di San Colombano di Bobbio, probabilmente poste nella zona di Barbagelata e dintorni.

Altre terre appartengono a livellari di Val di Sturla che da sempre dividevano i confini meridionali dell'Alta valle dell'Aveto con le nostre genti.
Infine si citano territori presso l'alpe di San Pietro, probabilmente posta verso la zona di Alpepiana (e a conferma di ciò compare nel documento un certo Carbone da Cariseto), sino ad arrivare al fondo Brugnole che, oggettivamente, richiama alla mente le estensioni di territorio intorno all'attuale villa Brignole, che è posta nei pressi di Rezzoaglio, di fronte a Costafigara e a Rocca Martina.
Occorre ricordare che Alberto nel documento di fondazione di Petramartina fa atto di sottomissione al monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia, casa madre dalla quale provenivano lui e il fratello quando si sono ritirati (come lui afferma) per dimorare presso la cella di San Michele, non per vaghezza di nuovi luoghi, ma per servire Dio.
San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia all'epoca era un famosissimo monastero, fondato dal re longobardo Ariperto e fatto assurgere al massimo splendore dal suo successore Liutprando, che vi aveva fatto traslare il corpo di Sant'Agostino.
Il monastero pavese, sebbene in decadenza, aveva ancora immense proprietà e fra queste la corte di Alpepiana posta sul "limes" fra Aveto e Trebbia.
Intorno a quel confine oltre ai monaci si insediarono gruppi di Arimanni,ossia uomini liberi atti a portare le armi, di ceppo longobardo, che servendo fedelmente il loro re, in una qualche battaglia, ne avevano ricevuto in cambio donazioni di terre qual ricompensa.
Che nei pressi di quel confine, che pressappoco ricalca l'attuale, si fossero stabiliti gli Arimanni si può dedurre dai toponimi di Monte della Guardia, Ca' de Bertè, Ghierto, Gaie (che secondo la prof.ssa Rita Caprini apparterrebbero, con qualche distinguo, all'etimologia germanica).
Il Monte della Guardia è nei pressi del Monte Caucaso nella zona d'Acquapendente e Barbagelata, Ca' de Bertè e Ghierto sono presso Priosa d'Aveto, e le Gaie sono fra Mileto e Villa Piano di fronte a Villa Cella.
Ora (pur non dimenticando gli avvertimenti di G. Redoano Coppedè) non si può fare a meno di notare che tali toponimi paiono concordare con i confini settentrionali che venivano dati nella Conventio alla costituenda cella di San Michele di Petra Martina, anche se la prudenza è d'obbligo.
Non dimentichiamo che secondo alcune fonti la piana di Cabanne, all'epoca, era invasa da un lago-palude che ne impediva l'attraversamento.
Parrebbe testificarlo un passo del Praeceptum Liutprandi regis Basilicae S. Petri Ticinensis dell'anno 714 che recita: "...exiente in Monte Ebore et conversante usque in Fontana Ventola ponente caput ad decora paluda...", e le considerazioni fatte nel 1907 dall'illustre professore Taramelli dell'Università di Pavia in merito alla costituenda diga presso il Masapello "...La località Cabanne, come un tempo contenne un lago quaternario, permette oggi la formazione di un lago artificiale, ...".
E ciò conforta la tesi che provenendo da Fontana Ventola (l'attuale Ventarola), dato l'impedimento del lago, occorreva inoltrarsi in direzione Priosa, risalire o da Ghierto o verso la vallata del Salto sino a giungere sul crinale fra le valli dell'Aveto e del Trebbia, percorrerlo per qualche miglio (presumibilmente lungo la cosiddetta via Patranica che, mantenendosi per lunghi tratti sul crinale portava, pressappoco, da Molassana a Piacenza) e quindi scendere alle Gaie.
Si poteva continuare attraversando ciò che oggi è il territorio di Villa Piano e Villa Brignole, in direzione Rezzoaglio, salire verso Casaleggio, superare il rio Stampa (altro toponimo d'età longobarda) dirigersi ad Alpepiana e di lì salire verso l'hospitale di Alpelonga posto in direzione Piacenza.
Oppure guadando l'Aveto presso il Passo dei Morti risalire verso Villa Cella in sponda destra all'Aveto, proseguire verso Costafigara e convergere su Rezzoaglio, da lì risalire verso Villa Noce e Amborzasco alla volta del passo dell'Incisa (ove era un'hospitale), o puntando su Alpicella salire al passo del Tomarlo (ov'era presumibilmente l'altro hospitale), oppure al passo del Chiodo, posti fra la catena del Maggiorasca e del Monte Penna e dirigersi su Piacenza o Parma (i monti Groppo Rosso e Groppo delle Ali, lì in zona, paiono derivare dal toponimo longobardo Kruppa).
I frati di San Michele de Cella (così nominati in una pergamena del 1251) debbono allo svuotamento del lago-palude della piana di Cabanne la loro fama, ed al contempo debbono considerare l'impresa come una delle cause del loro declino.

I nostri vecchi da sempre ci han tramandato, tramite le veglie notturne, dell'esistenza del lago: parlando di morti traghettati dall'approdo presso la 'Ca' da barca' di Priosa sino a quello della 'Costa delle Barche' presso Farfanosa e quindi portati a spalle sino alla chiesa da 'Razella' (la Cella), l'attuale Villa Cella.
I monaci come loro costume ne intrapresero l'opera di bonifica, facendo sgretolare le rocce del Masapello, secondo la tradizione popolare raccolta dall'amico Guido Ferretti, accendendovi sopra grandi falò, e probabilmente facendole repentinamente raffreddare versandovi sopra dell'aceto... tecnica che appresero leggendo trattati di ingegneria degli antichi romani (come mi suggerisce un colloquio avuto col prof. Gino Coppedè a proposito di taglio di strade nella roccia).
La bonifica del lago, eseguita nel volgere di qualche anno (pali di consolidamento dell'argine e canali di drenaggio sono stati messi in luce dalle piene dell'Aveto, come ha suggerito l'amico Giorgio Palazzo), portò, col tempo, all'abbandono dell'importante strada che dipartivasi dall'abbazia di Borzone e dal territorio di Borzonasca in val di Sturla, attraversati i paesini di Caregli e Stibiveri, giungeva al Passo delle Rocche o di Bisinella, quindi si dirigeva su Villa Cella dove i pellegrini ricevevano adeguato conforto.
Intanto l'antica chiesetta, o Cella, si era trasformata in Abbazia.
Un ramo della strada proseguiva verso Costafigara - Rezzoaglio, un altro si teneva a mezza costa per giungere, attraversando le Lame, ove sorse l'hospitale di San Bartolomeo in Lamis, e il territorio dell'Aiona, all'hospitale dell'Incisa e quindi dirigersi su Santa Maria del Taro, come variante si poteva puntare sulla Scaletta, oppure giungere al Chiodo e al Tomarlo e proseguire verso l'abbazia di Torrio.

L'Abbazia di Villa Cella (che pare abbia fornito abati sino all'Abbazia di Borzone ed abbia avuto fra i più autorevoli dei suoi un certo Manfredo da Lavania, poi Cardinale della casata dei Fieschi) dovendosi destreggiare tra le lotte di potere che a 150 anni dalla fondazione di San Michele de Petramartina si scatenarono in Aveto fra le consorterie dei Fieschi e dei Malaspina e la perduta Centralità, a cagione della nascita di nuove strade di fondovalle (direttrice Ventarola, Parazzuolo Cabanne), pian piano sparì dalla scena come già era successo ad Alpepiana che l'aveva preceduta nella parabola discendente.

In valle si affacciavano, intanto, i Della Cella nobile casata che condizionò le sorti dei Marchesati succedutisi in Aveto sin quasi alle soglie del 1700.

 


 

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Pagina pubblicata il 20 agosto 2004, letta 7830 volte dal 23 gennaio 2006
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