Valdaveto.net > Emigrazione > Storie di emigranti: u Gròssu e Benèitu u Ruxu
Nel secolo XIX i
contadini dei nostri monti cercavano lavoro altrove specialmente durante i mesi
invernali, periodo nel quale le attività agricole erano alquanto ridotte.
Fu così che nell'autunno del 1890 arrivò nel paese di Casoni la notizia di un
importante lavoro a Smirne in Turchia, al quale partecipavano imprese italiane
che assumevano mano d'opera.
Ben presto si formò un gruppo di paesani
disposti a trasferirsi in Asia.
Fra costoro si ricordano soltanto: Giovanni
detto Carìstra, Michele detto Chelìn e suo cognato, il giovane
Benedetto, ventenne della famiglia dei Cùgni di Villanova. La decisione
era ormai presa, si trattò soltanto di sbrigare le normali pratiche di espatrio
e recarsi a Genova per la partenza via mare. La loro permanenza in Turchia, come
si ricorda, durò un solo anno.
Ai primi di dicembre del 1891, con
l'approssimarsi del Santo Natale, i Casonesi decisero di tornare in Italia, ad
eccezione del giovane Benedetto, che volle restare. Suo cognato Chelìn lo
esortò a rimpatriare con loro, il lavoro stava per finire, ma egli fu
irremovibile.
Non si conosce quale fosse il motivo di questa sua decisione.
Certamente durante quell'anno di lavoro in Turchia egli aveva stretto amicizia
con altri giovani italiani e stranieri, compagni di lavoro, amanti come lui di
nuove avventure e con la grande speranza di poter un giorno ritornare in patria
dopo aver fatto fortuna, come si suol dire.
Sta di fatto che di lui non si
ebbero più notizie per ben ventinove anni, duranti i quali la sua famiglia, i
suoi tre fratelli fecero ricerche tramite i vari consolati senza alcun
risultato.
Dopo tanti anni di silenzio, logicamente si perse la speranza di
poter rivedere Benedetto Ferretti, tanto che i parenti lo considerarono morto e
gli fecero celebrare una messa in suffragio.
Benedetto in quei lunghi anni,
senza dare alcuna notizia di sé, visse nell'impero dell'ultimo Zar di tutte le
Russie.
Terminato il lavoro a Smirne, egli con altri suoi compagni italiani e
russi andò a lavorare con una impresa che operava lungo la linea ferroviaria
Transiberiana, allora in costruzione e fu con questa partecipe a tutta la sua
realizzazione oltre gli Urali: in Siberia, Mongolia e Manciuria, tanto da
arrivare fino a Vladivostok sul Mar del Giappone. Successivamente lavorò anche
al completamento del tratto che aggira il lago Bajkal e alla variante oltre i
corsi dei fiumi Amur e Ussuri avvenuta nel 1913, in seguito a l'occupazione
della Manciuria da parte dei Giapponesi.
In quegli anni, Benedetto ebbe
moglie e una figlia e cercò di costruire quella "fortuna" che aveva sognato fin
dal giorno del suo espatrio. Quando aveva quasi realizzato il suo sogno iniziò
la prima guerra mondiale e per la Russia, come per l'Europa, arrivarono anni
difficili. Con essa scoppiò la grande rivoluzione di Ottobre e la guerra civile;
l'inflazione raggiunse livelli sbalorditivi.
Quando Benedetto decise di
abbandonare la Russia che stava cambiando, i suoi risparmi, "la sua fortuna",
consistevano in una valigia piena di banconote, ma con ben poco
valore.
Arrivò in paese, con grande sorpresa di tutti, alla vigilia di Natale
del 1920; ormai vecchio e stanco, aveva perso la moglie e non aveva più notizie
della figlia rimasta in Russia.
In paese da quel giorno lo chiamarono Benèitu u Ruxu.
Portava la barba ormai mezza bianca, masticava
tabacco e parlava il dialetto locale intercalato da frasi o parole italiane. In
mancanza della vodka non poteva far a meno del vino.
Visse modestamente i
suoi ultimi anni con i parenti, rendendosi utile conducendo la mandria delle
giovenche al pascolo. Morì nell'anno 1942.
Il suo nome era Bartolomeo, ma quasi tutti lo chiamavano u
Gròssu (il Grosso), forse per la sua corporatura. Era nato nel 1833 e fu uno
dei primissimi di Casoni ad emigrare nel Nord America.
In gran parte dei
casi, l'emigrante raggiungeva lontane terre incoraggiato da parenti o amici che
l'avevano preceduto.
Bartolomeo, essendo dei primi, non ebbe questo
privilegio, ma forse fu consigliato ed aiutato da conoscenti della Fontanabuona
che aveva incontrato lavorando, durante la stagione invernale, nelle cave di
ardesia di Verzi. Partì intorno al 1855, poco più che ventenne. La sua meta era
Denver in Colorado.
Bartolomeo Ferretti, dopo aver salutato con grande
emozione gli amici, i parenti e la sua giovane fidanzata Caterina, conosciuta
come la Bettìn di Villanova, raggiunse a piedi Borzonasca, da dove
continuò il suo viaggio con la carrozza a cavalli, e proseguendo per Chiavari e
Recco arrivò a Genova.
Giunto in città, dovette pernottare in una locanda in
attesa del visto consolare e della partenza della nave. La traversata da Genova
a New York non fu senza difficoltà.
Bartolomeo si trovò a dover dividere con
altre sette persone una cabina di pochi metri quadrati, maleodorante per il
lezzo dei corpi e del vomito; soltanto sul ponte, tempo permettendo, si trovava
un po' di sollievo dall'aria fetida della cabina. Dopo ventidue giorni la nave
approdò a New York.
Qui incominciarono le prime difficoltà con la nuova
lingua inglese. Bartolomeo si ritenne fortunato per aver conosciuto, durante la
traversata, un italiano che rientrava negli Stati Uniti e "masticava un po'
d'americano"; quest'ultimo lo aiutò a cambiare i soldi italiani in dollari senza
rischiare d'essere imbrogliato da disonesti profittatori.
Dopo una settimana
partì per il Colorado con altri emigranti italiani e con essi arrivò fino a
Omaha nel Nebraska da dove proseguì, sempre in treno, lungo la nuova linea
ferroviaria transcontinentale che era già percorribile fino al fiume South
Platte in Colorado. Da qui, con un viaggio di tre giorni, in diligenza raggiunse
Denver.
In quegli anni, Denver era un centro minerario che si chiamava
Auraria e si stava sviluppando rapidamente in seguito alla scoperta di
giacimenti auriferi nella zona. Il nuovo nome della città fu dato nel 1858 con
la sua fondazione. Bartolomeo lavorò con assiduità e tenacia nelle miniere e
dopo otto anni aveva raggiunto un certo benessere e possedeva una casa
propria.
Egli, durante quegli anni, non aveva mai dimenticato la sua
fidanzata rimasta in Italia, però da qualche tempo non aveva più notizie di lei,
questo silenzio lo preoccupava.
Bartolomeo, avendone ora le possibilità, decise
di tornare in patria con l'intenzione di sposare la Bettìn e con lei
stabilirsi definitivamente in America. Quando egli giunse in paese seppe che la
Bettìn era stata promessa a un giovane di Fontanigorda della famiglia dei
Piè lunghi (Piedi lunghi) e stava per sposarsi il giorno dopo.
Bartolomeo
non si rassegnò all'evidenza dei fatti, lo stesso pomeriggio si recò a
Fontanigorda, dove nell'osteria, mentre salutava gli amici del paese, non
mancarono le battute ironiche su quanto gli stava capitando. Ritornando a casa
passò per Villanova; la Bettìn era alla fontana che si trovava lungo la
strada.
I due giovani si salutarono emozionati, a lei spuntarono subito i
lacrimoni agli occhi.
Bartolomeo capì d'essere sempre lui il preferito; quindi
le chiese semplicemente:
Sei sempre della stessa idea?
Ella col nodo
alla gola non potè rispondere, riuscì soltanto ad annuire abbassando il capo.
Ambedue in quell'istante ebbero lo stesso pensiero.
Fuggire insieme nel lontano
Colorado.
Così fecero.
Il padre di lei, alla stessa sera, venne a protestare
sotto le finestre della casa di Bartolomeo; si dovevano salvare le apparenze, ma
alla fine si può pensare che lui approvasse la decisione presa dalla
figlia.
Passato il tempo necessario per espletare le pratiche di espatrio, i
due giovani partirono insieme per la loro casa in Colorado.
Purtroppo, in questo
mondo, tante volte la sorte è matrigna; la coppia non ebbe fortuna.
Essi ebbero
due figlie che morirono in tenera età, poi morì anche la loro madre. Bartolomeo
ritornò ormai solo.
Dopo parecchi anni si risposò con una giovane donna di
Casoni che gli diede una figlia.
Bartolomeo visse il resto della sua vita in
paese.
Morì nel 1907.
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Pagina pubblicata il 28 aprile 2005, letta 7476 volte dal 23 gennaio 2006
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