Valdaveto.net > Usi, costumi, tradizioni, racconti e leggende > Antico mondo pastorale dell'Alta Val Trebbia
di Guido Ferretti
di Caterina Ferretti e Guido Ferretti
disegni di Guido Ferretti
Notizie storiche
Nella seconda metà del 1500, quando le prime famiglie dei Ferretti presero stabile dimora a Casoni, il territorio circostante l'abitato, dal punto di vista agricolo, offriva scarse risorse anche per chi conduceva una misera esistenza. Intorno alle poche case che formavano il paese (forse tre) vi erano soltanto castagneti che, per la popolazione locale, costituivano la fonte più importante di sostentamento. Le zone seminative e prative erano ben poche, limitate ai soli terreni che non si prestavano alla coltivazione del castagno.
Sopra ai 900 metri di altitudine le montagne erano ricoperte, quasi totalmente, dalla faggeta millenaria che le rendeva inadatte alla pastorizia.
Con queste prime risorse ambientali, l'unico allevamento praticabile fu
quello delle pecore e delle capre. Animali che si adattavano maggiormente all'ambiente per quasi tutto l'anno, tranne durante i rigidi mesi invernali quando venivano trasferiti verso il mare con le transumanze ricordate nei documenti storici.
Ben presto sorse la necessità d'introdurre l'allevamento dei bovini, utile per la produzione del latte e dei suoi derivati e basilare per uno sviluppo agricolo. Per far ciò occorrevano pascoli per l'estate e prati per la scorta invernale di fieno.
Non volendo intaccare i castagneti, si scelse di trasformare la faggeta.
A tale scopo veniva fatta domanda al feudatario d'allora, il principe Doria marchese di Torriglia, che concedeva di tagliare il bosco per la produzione di carbone e successivamente di trasformare il terreno a pascolo o prato (ad runcationem).
Nacquero così tutti i pascoli e i prati di alta quota che fino a cinquant'anni fa sopravvissero al degrado attuale.
Contemporaneamente all'estendersi dei terreni trasformati a prato o pascolo, aumentò l'allevamento dei bovini da latte che diede vita alla produzione tipica del formaggio locale dalle caratteristiche similari a quello di Santo Stefano d'Aveto.
Questo prodotto fu per secoli il principale oggetto di scambio con altre mercanzie d'importazione come: il sale, l'olio d'oliva, le scarpe, i tessuti e i manufatti non localmente reperibili.
L'allevamento dei bovini da latte, divenuto la risorsa principale, ebbe un forte incremento tanto che all'inizio del '900 i capi censiti, nel solo paese di Casoni, erano 400, dei quali il trenta per cento produceva latte che veniva lavorato per ottenere, nei mesi migliori, ben cinquanta chilogrammi di formaggio stagionato al giorno.
Questa tipica lavorazione del formaggio iniziò localmente a Vallescura, paese che fa parte del comprensorio di Casoni, ma più antico di oltre un secolo. I suoi abitanti, tutti del casato dei
Benazzi, con molte probabilità vennero dall'Alta Val di Nure portando con loro le antiche conoscenze casearie emiliane.
In quegli anni di maggiore produzione, il tipico formaggio veniva commercializzato specialmente nelle località della Riviera di Levante da dove, in alcuni casi, era esportato anche su altri mercati.
Fra i vari commercianti, che diedero impulso a questa attività, ricordiamo Ferretti Matteo di Villanova e i suoi figli che svilupparono, in passato, una rete di vendita nella zona del golfo Tigullio trattando la maggior parte del prodotto.
Quanto sopra, sia pure a grandi linee, rappresenta lo sviluppo ch'ebbe la pastorizia a Casoni e in altri paesi dell'Alta Val Trebbia, nel periodo che va dal 1500 fino alla metà del secolo scorso.
Con l'incremento della pastorizia aumentarono anche le zone agricole prative e seminative, ma non adeguatamente al fabbisogno della popolazione contadina. Essa aveva avuto uno sviluppo demografico di gran lunga superiore a quello consentito dalle risorse locali. Si venne così a creare un esubero di mano d'opera tale da rimanere inutilizzata per gran parte dell'anno.
Di conseguenza, fin dal 1700, incominciò quel fenomeno migratorio stagionale che poi, in molti casi, nei secoli XIX e XX, diventò definitivo.
Segue la descrizione di un tipico esempio di casa rurale dei nostri paesi in cui, con dovizia di particolari, si ricorda l'attività pastorale che in essa si svolgeva.
La casa rurale
Al piano terreno della casa contadina, quasi sempre, era situata la stalla dove veniva alloggiato il bestiame.
Per accedere al piano superiore si saliva una scala esterna che immetteva su un terrazzo
(puntiè) antistante l'ingresso. Questo manufatto era costruito in pietra squadrata a mano sistemata a vista, come pure gli stipiti e l'architrave della porta principale della casa.
Essi sono veri capolavori dell'arte contadina e a tutt'oggi se ne possono ancora ammirare i pochi esemplari rimasti.
L'interno della casa (solai e pareti) era in legno. Al primo piano si trovavano le camere da letto, al secondo la cucina che serviva anche da essiccatoio per le castagne (seccarèzziu). Il solaio di questo vano, onde evitare il pericolo d'incendio, era ricoperto di lastre di pietra localmente chiamata àrvegu (pietra cavata sul posto somigliante all'ardesia, ma molto più resistente). Al centro della cucina vi era un grande focolare, sul quale pendeva una grossa catena a maglia tonda terminante con un gancio dove si appendevano i calderoni per la produzione del formaggio e della ricotta; inoltre esso veniva usato per riscaldare il pesante testo
(tièstu) di ghisa sotto il quale venivano cotti il pane, la pattona e la tradizionale torta delle grandi occasioni (figàzza furminànte).
In un vano vicino alla cucina era sistemata la madia dalla quale prendeva il nome la stanza (càmera d'a mèisa). La madia era un elemento d'arredo indispensabile. Su di essa si preparavano giornalmente le tagliatelle (taggiarìn) per la minestra della sera, vi si impastavano il pane e le focaccette (panelìn). Negli armadietti sottostanti il piano di lavoro venivano riposti altri generi alimentari: la pasta, il riso, lo zucchero, l'olio d'oliva, il tutto in piccola quantità perché l'uso della roba di bottega era molto limitato e a comprare si andava raramente.
In questa stessa camera erano anche sistemati i cassoni
(banchè) contenenti le provviste di macinato, cioè la farina di granturco, di frumento e di castagne. Nella camera da mèisa c'era pure un tavolo sul quale erano posati i recipienti dell'acqua e la tradizionale secchia (sèggia) dove si beveva attingendo l'acqua col caratteristico mestolo (cùppu) di rame stagnato che si trovava vicino ad essa.
All'ultimo piano della casa, accanto all'essiccatoio, vi era il solaio sottotetto (tuorà) dove venivano poste fascine di fuscelli e ginestre secche usate per accendere il fuoco (il tutto in gergo locale definito con una sola parola: azzendìmme). Lo spazio libero rimanente era utilizzato per stendere i fagioli ad essiccare nel loro baccello onde ottenere una migliore conservazione.
La stalla e gli armenti
Torniamo al piano terra dove, come abbiamo già accennato, troviamo la stalla.
Si può dire che la vita dei nostri contadini si svolgeva prevalentemente in funzione della stalla.
Infatti, poiché la produzione del formaggio era la maggiore fonte di reddito, le mucche venivano governate con molta cura.
La stalla era così composta: il fondo era in terra battuta, la mangiatoia era basata su un muretto in pietra e calce alto cinquanta centimetri e profondo circa un metro, esternamente a questo era fissato un tavolone che formava la parete frontale e su cui venivano assicurate le catene per legare le mucche al proprio posto. La mangiatoia internamente era divisa da pareti di tavole che delimitavano gli scomparti corrispondenti ai diversi posti e tenevano separate le razioni di fieno dei singoli animali. Sul muro sovrastante e prospiciente la mangiatoia era sistemata la rastrelliera che serviva a contenere la razione di fieno per la notte.
Lo spazio dove stavano le mucche misurava circa due metri di profondità. La parte anteriore, vicino alla mangiatoia, era ricoperta da un grezzo tavolato di legno fissato sul terreno; la parte posteriore era pavimentata con lastre di pietra ben squadrata e modellata a mano e terminava con una canaletta (ruzzìn) bordata da cordoli, anch'essi in pietra, nella quale andavano gli escrementi. La canaletta, tramite un condotto di scarico, era collegata con un pozzo esterno dove defluiva il liquame. Esso periodicamente veniva svuotato e il contenuto sparso sui prati.
La parte della stalla più buia era adibita a deposito del fogliame usato per la lettiera delle mucche che si rifaceva giornalmente dopo la pulitura.
Le mucche erano sistemate con ordine: la prima della fila era sempre la più anziana, dopo venivano le più giovani da latte, infine le giovenche (manzètte). Quando rientravano dal pascolo, ognuna prendeva il proprio posto, senza mai sbagliarsi.
Entrando nella stalla, spesso si notava, appesa a una delle grosse travi sovrastanti, l'immagine di S. Antonio Abate circondato dagli animali domestici, simbolo di devozione verso il santo protettore degli armenti.
I vitellini erano sistemati da un lato della stalla, in piccoli recinti (stàbbi) col fondo ricoperto di tondini di legno affiancati (sgrèizu) in modo da mantenerli sempre all'asciutto.
Le femmine venivano cresciute per entrare a far parte del branco, perciò, dopo un mese di allattamento, si cominciava a svezzarle allungando il latte con pappette di farina di piselli.
Al contrario, i maschi, in genere, venivano messi all'ingrasso (non sempre, a volte venivano venduti piccolissimi) fornendoli di speciale museruola
(gabbiö) perché durante i tre mesi di allattamento si nutrissero esclusivamente con latte, senza cibarsi d'altro.
In quei tempi i mercanti di bestiame erano a conoscenza della situazione di ogni stalla e, quando i vitelli erano pronti per la macellazione, arrivavano a comprarli. In questo modo la bianchissima carne di vitello, prodotta dai poveri, finiva sulla tavola dei ricchi.
La qualità delle mucche allevate era labruna alpina, tipo di vacca leggera ed agile, adatta per pascolare in montagna. Essa produceva in media, nella stagione migliore, circa dieci litri di latte al giorno.
Quando si capiva da specifici comportamenti che le mucche o le giovenche erano in calore, si portavano a fecondare dal toro di Antonio dei Barbiscin, unico del paese.
Nella stalla il momento più importante e movimentato era durante il parto delle mucche. Se questo capitava di notte si doveva vegliare. Se il vitello era grosso e tardava a nascere, si chiamava il vicino di casa a portare aiuto durante il travaglio.
Appena terminato il parto, si mungeva la fattrice; le si dava da bere il colostro bollito, salato, allungato con acqua e con l'aggiunta di due manciate di farina di frumento. Questo veniva fatto, si diceva, per aiutare la mucca a dare la placenta.
Durante gli otto giorni successivi al parto ad essa veniva dato un beverone fatto con acqua, farina di frumento, avena e segale, localmente dettoacqua bianca. Per un mese o due dopo il parto la mungitura avveniva tre volte al giorno.
Il governo della stalla era molto regolare, però cambiava col mutar delle stagioni.
In estate tutti si alzavano molto presto. Il primo lavoro da farsi era la pulizia della stalla e il successivo rifacimento della lettiera con foglie pulite; quindi si passava alla mungitura, eseguita sempre dalle donne. Terminata la mungitura, alle vacche da latte veniva dato un beverone (zùtta) fatto con crusca e farine varie.
A questo punto la mandria era pronta per essere affidata ai bambini che la portavano al pascolo. I bambini già dall'età di sei anni incominciavano a svolgere questo incarico.Le famiglie che non avevano ragazzi ne assumevano uno (il famiglio) per l'intera stagione che andava dal 1° maggio al 30 novembre. Il suo compito era quello di portare le mandrie al pascolo. Questi pastorelli restavano l'intero giorno sui monti.
La colazione del mattino era per tutti la polenta che spesso ai poveri pastori veniva data anche per il pranzo, infatti per loro la colazione al sacco consisteva in due fette di polenta con dentro un pezzetto di formaggio, oppure era formata dal pane o dal panelìn, fatto con la minestra avanzata la sera prima e impastata con farina di castagne.
Essi portavano la loro colazione (marènda) ben legata alla schiena, avvolta nel tradizionale fazzoletto quadrettato, usato anche dagli emigranti per il loro fardello (mandillà).
D'estate le giovenche che non avevano latte venivano lasciate al monte anche di notte. Esse trovavano riparo nelle fitte faggete o incascinettecostruite a proposito, nelle quali si rifugiavano anche i bambini durante i temporali.
Nelle lunghe giornate d'estate il paese era semideserto e silenzioso; soltanto alla sera si rianimava col rientro delle mandrie con i loro custodi e di tutta la gente che ritornava dai campi.
Dopo il tramonto le donne andavano a mungere con i loro lucenti secchi di rame. Il latte appena munto veniva portato allo scambio (càmbiu).
Alle mucche veniva data la zùtta, il beverone già citato, e una porzione di erba per la notte. I vitellini (quando c'erano) ricevevano la loro razione serale di latte.
Le donne, finito il lavoro della stalla, dovevano pensare ai cristiani; rientravano in casa e buttavano le tagliatelle nella pentola del minestrone che stava bollendo. Quando tutto era pronto, chiamavano i bambini a raccolta. Si cenava con minestra e castagnaccio.
Dopo aver mangiato si doveva pensare alla cena dei poveri morti dicendo il rosario. Finalmente si andava a dormire vinti dalla stanchezza.
In autunno le manze restavano ancora sui monti, mentre le mucche da latte si portavano a pascolare nei prati dov'era cresciuta l'erba del secondo taglio. Ciò era possibile soltanto al pomeriggio perché, causa le lunghe e gelide nottate, al mattino i prati erano coperti da molta rugiada o brina dannose alla salute del bestiame.
In autunno avanzato, prima delle grandi nevicate invernali, tutto il branco veniva trasferito alcasone, piccola costruzione in muratura fatta per il bestiame, con la stalla al piano terra e sopra di essa il fienile.
In tal modo il fieno veniva consumato sul posto risparmiando il trasporto in paese durante la fienagione estiva, e col vantaggio di avere in loco lo stallatico per le semine.
In quel periodo le mucche da latte erano in avanzata gravidanza, perciò erano quasi o completamente senza latte, quindi il governo della stalla era meno impegnativo; infatti si accudivano due volte al giorno.
Generalmente prima di Natale la mandria rientrava in paese, nella stalla di casa.
D'inverno le giornate sono corte, di conseguenza il governo della stalla incominciava tardi al mattino e finiva presto alla sera. Nel pomeriggio veniva preparato il fieno nella gabbiètta
(contenitore composto da tre cerchi di legno di frassino uniti tra loro da un intreccio di verghe di salice, tipico manufatto dell'arte contadina locale) in quantità tale da coprire il fabbisogno serale e anche quello del mattino seguente, in previsione di nevicate notturne che avrebbero ostacolato l'accesso al fienile.
Dopo pranzo il branco veniva portato a bere alla fontana; ciò serviva pure agli armenti per pulirsi gli zoccoli nella neve, evitando così la malattia dettamale biancoche colpiva le bestie che rimanevano troppo a lungo nella stalla.
Come abbiamo già detto, il governo della stalla si svolgeva in maniera diversa secondo le stagioni e le condizioni delle mucche da latte.
La vita dei contadini scorreva a stretto contatto con quella degli armenti; anche il loro dormire era vicino ad essi, nelle camere poste sopra alla stalla dove si percepiva ogni odore e rumore che da essa pervenivano.
Durante il ruminare notturno i batacchi dei sonagli che gli animali portavano al collo scandivano rintocchi cadenzati; quel suono era una dolce ninnananna che accompagnava i sonni dei nostri contadini.
(brano apparso nel giugno 2001 sul n° 35 della rivista etno-antropologica R nì d'àigüra )
Vari attrezzi caseari (disegni di Guido Ferretti)
Fasi di lavorazione del latte
Per poter ottenere giornalmente la quantità di latte fresco, necessaria per la produzione di una normale forma di formaggio, si ricorreva allo scambio del prodotto appena munto.
Lo scambio (u càmbiu)
Lo scambio del latte avveniva fra un gruppo di famiglie contadine (generalmente non più di dieci unità) ed era basato sul senso dell'onestà e della fiducia reciproca.
La misurazione (a mesìra)
A Vallescura il latte veniva misurato con un unico secchio (stagnùn) della capacità di dieci litri e con una scodella (schièla) che conteneva un quarto di litro. Il secchio era di rame stagnato con rifiniture in ottone, la scodella con il manico era di legno.
A Casoni il metodo di misura era originalmente diverso.
Esso consisteva nella misurazione del livello del latte nel secchio con un bastoncino di legno usato come piccola sonda e segnato al giusto livello mediante una tacca fatta col coltello. Ogni famiglia aveva il proprio recipiente di misura e rilasciava a titolo di ricevuta un bastoncino segnato a livello e di quella qualità di legno che era sua esclusiva.
Pertanto ad ogni famiglia corrispondeva una qualità di legno (faggio, castagno, acero, ontano, carpine, cerro, ecc.).
La restituzione del latte avveniva sempre usando lo stesso secchio e misurando col medesimo bastoncino fino al livello precedentemente segnato.
Vallescura che contava circa venti famiglie, aveva due scambi; Casoni più popolosa ne aveva cinque.
La raccolta (purtà u lèite)
La raccolta iniziava con il latte della mungitura serale che al mattino seguente, dopo il raffreddamento notturno, veniva scremato per la produzione del burro e successivamente integrato con il latte del mattino.
Filtraggio (curà)
Il latte durante la raccolta veniva filtrato con un filtro (cùru) formato da un recipiente di legno a forma di coppa semisferica del diametro di circa quaranta centimetri, sul quale veniva steso un telo di lino candido che aveva la funzione di filtro vero e proprio, sul fondo della coppa era praticato un foro che permetteva il deflusso del latte filtrato nel recipiente sottostante. Il filtro era supportato da una base a forma di tavola con maniglie che appoggiava sull'orlo del recipiente anzi detto.
Lavorazione del formaggio (fa u frumàggiu)
L'intera produzione di latte (mungitura serale e mattutina) veniva versata in uno o due grossi paioli (buggiàcca) anch'essi di rame stagnato e messa a riscaldare sul focolare alla temperatura di circa 35-36°C.
A questo punto si aggiungeva il caglio (il caglio si otteneva dallo stomaco dei vitelli da latte con l'aggiunta di sale e latte e successivo essiccamento
quagètto). Oppure si comprava dai venditori ambulanti (molto noto era un venditore di Brignole in Val d'Aveto che trattava questo prodotto consegnandolo nei vari paesi della Val Trebbia e Aveto).
Si attendeva quindi che il latte fosse ben cagliato per poi procedere allarottura, usando un particolare mestolo (a mèxera). Il cagliato veniva tolto dal siero spremendolo manualmente e formando delle palle della grandezza del palmo della mano (tùmma).
Si procedeva quindi alla frantumazione per facilitare la completa separazione del siero, quindi il cagliato veniva posto e pressato nella forma (fascièlla).
La forma, ricoperta con una tela di lino, era inizialmente caricata con una lastra di ardesia e successivamente con altri pesi fatti di pietra. Per l'intera durata della spremitura la forma era posta sopra un apposito recipiente (tuffagnìa) che serviva a raccogliere il siero e convogliarlo in un mastello.
Onde evitare malformazioni, la forma di formaggio veniva periodicamente capovolta nel contenitore. Quando essa aveva dato tutto il siero era pronta per la salatura e la stagionatura.
Salatura e stagionatura
Il formaggio veniva salato e conservato in un locale generalmente seminterrato (questo locale a Vallescura è chiamato granà mentre a Casoni, alla distanza di circa un chilometro, lo si chiama canivièllo) in modo da mantenere una temperatura fresca in estate e meno gelida in inverno.
Durante la salatura il formaggio veniva posto su una lastra di ardesia e cosparso di sale grosso. Per la stagionatura si sistemavano le forme su ripiani di tavole di legno e periodicamente si ungevano con olio d'oliva.
Le forme stagionate prodotte a Casoni o Vallescura pesavano generalmente dagli 8 ai 12 chilogrammi. La qualità migliore si otteneva nei mesi di maggio e giugno.
Il formaggio di Vallescura è sempre stato superiore in bontà a qualsiasi altro, dello stesso tipo, prodotto in Alta Val Trebbia.
La ricotta (u saràzzu)
Il siero rimasto nel paiolo, dopo essere stato separato completamente dal cagliato, veniva messo a scaldare sul focolare con l'aggiunta di sale. Raggiunta la temperatura di 75-80°C si coagulava la ricotta che veniva schiumata con una schiumarola di legno (càzza buösa) e posta in una tela di lino, chiusa a fagotto con un cappio di spago ed appesa a gocciolare.
Il prodotto residuato della ricotta è chiamato localmente scöggia. Questo prodotto veniva equamente suddiviso fra i componenti dello scambio versandolo nei loro mastelli di legno (nàppi) al fine di essere utilizzato nella preparazione di mangime per il bestiame.
La ricotta è un ottimo prodotto, ma di facile deterioramento. Per ottenere una più lunga conservazione veniva salata e conservata per una breve stagionatura.
Il burro (u bitìru)
Come è stato precedentemente descritto, il latte della mungitura serale veniva
scremato al mattino successivo. La crema di latte era trasformata in burro mediante sbattimento nella
zangola (birraruö). Il burro veniva separato dal siero e confezionato in pani di forma
cilindrica ottenuti con sbattimento e rotolamento entro un piatto.
Anticamente il burro era poco
usato, pertanto la produzione era molto limitata.
(brano tratto dal volume Leite e frumaggiu di Giovanni Ferrero e Guido Ferretti, collana Storia locale, n° 7, ed. 1999)
Links
- San Stè, il formaggio dei pascoli della Val d'Aveto
- Fenomeno emigratorio nel comune di Fontanigorda
- Storie di emigranti: u Gròssu e Benèitu u Ruxu
- Tra leggenda e realtà: la storia di Michelin
- Racconti di primavera
- Racconti del lupo - Tratti dalla tradizione locale
- Racconti d'inverno
- Dove comincia l'Appennino > Cucina > Formaggi
Pagina pubblicata il 4 febbraio 2006, letta 14265 volte
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