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di Massimo Brizzolara
articolo pubblicato sulla rivista R Ni d'Aigura (Il Nido d'Aquila) , n° 49, gennaio - giugno 2008
fotografia di Enrico Pelos
L'ineluttabile destino di qualsiasi fiume, grande o piccolo che sia, è quello di portare le proprie acque, direttamente o indirettamente in mare.
Ma c'è modo e modo. E non avrei tentato di usurpare la meritata fama del capitano francese Jacques de Chabannes, signore di La Palice, se il corso dell'Aveto, non mi avesse suggerito questo banale spunto introduttivo.
D'altronde come interpretare un rigagnolo che nasce in località Acquapendente, sul monte Caucaso, e invece di raggiungere facilmente il mar Ligure percorrendo i pochi chilometri che li separano, decide di svoltare a sinistra e percorrere una sessantina di chilometri per gettarsi infine nel Trebbia e attraverso il Po, finire nell'Adriatico?
Forse voleva semplicemente insegnarci che le decisioni facili e scontate, non sempre si rivelano le più giuste.
Infatti la scelta apparentemente illogica, gli consente di attraversare una delle più belle valli dell'Appennino Ligure, che convenzionalmente prende il nome, proprio dal suo idronimo.
Dico convenzionalmente, perchè ritengo che la sua influenza nell'antropologia e nell'etnografia avetana, non essendo particolarmente significativa, non giustificherebbe la scelta .
Mi spiego meglio. Se osserviamo il corso del torrente, appare subito evidente che eccezion fatta per la tratta iniziale Villa Sbarbari - Molini, l'Aveto attraversa pochissimi centri abitati. E se lambisce Rezzoaglio, scorre ben lontano da S. Stefano e dalla maggior parte delle frazioni della valle.
Questo ha inevitabilmente comportato, uno sfruttamento delle sue acque a scopo irriguo e molitorio, poco intensivo.
Tanto è vero, che penso di essere abbastanza nel giusto affermando, che dei 55 mulini, attivi nel Comune di S. Stefano nel 1812 (che territorialmernte comprendeva anche l'attuale Comune di Rezzoaglio) presumibilmente circa solo un decimo, erano azionati dalle sue acque.
Questa condizione d'imperituro scansafatiche, non deve però indurci superficialmente, a considerare l'Aveto un flemmatico amico di pescatori e gitanti.
Come ogni spirito libero ha il suo carattere e lo sapevano bene i miei remoti conterranei, che dovevano necessariamente traversarlo.
Innumerevoli volte infatti, quando era in piena, il torrente impediva il congiungimento delle due sponde e quel che è peggio , spazzava via le precarie passerelle adibite allo scopo.
Questo problema era particolarmente sentito dagli abitanti di Esola, Ertola e Casaleggio che prima della costruzione del bel ponte nel 1825, che ancora sussiste, sovente erano impossibilitati a recarsi nella chiesa parrocchiale di Rezzoaglio.
Ma forse per dimostrare che non aveva nulla di personale con quelle popolazioni, nel 1795 distrusse anche il ponte che immetteva sulla strada per Alpepiana e costrinse i progettisti del nuovo collegamento, a proporre una soluzione architettonica più audace ed onerosa, ma meno esposta alle bizze del torrente, con una arcata di ben 33 metri di luce.
Insomma si sarebbe quasi portati a ritenere, che per i contadini valdavetani, il torrente abbia rappresentato più un problema che una risorsa. E in parte forse, è vero.
Che poi l'impatto utilitaristico nell'economia rurale, dei suoi numerosi affluenti, sia stato assolutamente determinante, non è minimamente in discussione, ma non può evidentemente attribuire all'Aveto meriti che oggettivamente non ha.
Certo, forse prima di scrivere speciose sentenze, bisognerebbe chiedere alle sue cristalline acque di scrivere un pezzo della storia avetana.
Lui la conosce tutta, ma da buon valligiano preferisce non parlare, noi ne conosciamo qualche frammento e talvolta parliamo a sproposito.
Spero di non continuare a farlo in questa occasione poichè vorrei, confortato da qualche elemento documentale, raccontarvi il risvolto più interessante e significativo della convivenza del torrente con la valle, che è indubbiamente quello relativo al pesante condizionamento che il medesimo, ha esercitato sulla viabilità di questo territorio.
Per farlo dobbiamo andare a ritroso di ben nove secoli e calarci nella realtà orografica e idrografica, della Val d'Aveto medievale.
Agli inizi del XII secolo, in località Pietramartina (l'attuale Villa Cella), s'insediarono una decina di monaci benedettini provenienti da Pavia. In ottemperanza al loro celebre motto "Ora et Labora" iniziarono subito un'importante opera di bonifica di uomini e territori.
Per non farci portare troppo fuori tema, in quest'occasione ci occuperemo soprattutto di quest'ultimi ed in particolare del cosiddetto lago di Cabanne. È geologicamente assodato, che in epoca remotissima, una gigantesca frana, impedendo il regolare deflusso delle acque dell Aveto avesse trasformato il pianoro di Cabanne in un gigantesco acquitrino, che nell'idioma locale pare venisse denominato "u lago da farfa", da cui deriverebbe ovviamente il toponimo Farfanosa.
Anche le strade dell' epoca dovevano necessariamente tener conto di questa realtà ed infatti la principale via di comunicazione che immetteva in valle da Borzonasca, giunta a Parazzuolo era costretta a svoltare verso la Priosa, per proseguire alla volta di Villa Salto.
Tradizionalmente si ritiene che quei poveri frati, con immani fatiche, ripristinando il naturale alveo del torrente, creassero le condizioni per il prosciugamento della palude.
Bisogna dire che non esiste una prova documentale a supporto di questo convenzionale assunto.
È tuttavia relativamente semplice dimostrare che l'acquitrino esisteva agli inizi del XII secolo, mentre non sussisteva più a partire dal XIV.
Ciò evidenzierebbe infatti, l'assoluta corrispondenza in termini cronologici tra i lavori di bonifica e la permanenza dei monaci a Villa Cella.
Abbiamo già osservato l'innaturale tracciato della principale arteria di quel tempo. Non credo di dover faticare molto per convincervi che in assenza della grandiosa palude avrebbe certamente seguito un percorso diverso e ben più agevole.
Inoltre per collocare cronologicamente la bonifica, è interessante studiare l'evoluzione dell'abitato di Cabanne. Prima del prosciugamento non poteva evidentemente sussistere, anche se è verosimile che sulle rive del lago, sorgesse un piccolo agglomerato di capanne, come l'etimologia della frazione lascerebbe supporre.
Ma considerando che il paese vero e proprio si sviluppò intorno alla prima chiesa edificata intorno all'anno 1300, possiamo tranquillamente affermare che il prosciugamento avvenne tra il XII e il XIV secolo. Periodo compatibile con la permanenza dei frati a Villa Cella.
Certo ripensando a quelle antiche mulattiere, non dobbiamo cadere nell'errore di pensare che le medesime potessero anche lontanamente essere equiparate alle strade che conosciamo oggi. I documenti dell'epoca le definiscono "pessime" o "malagevolissime" e praticamente erano fangosi sentieri che nella sostanza continuavano a perpetuare il millenario isolamento di questa valle.
Basti pensare che l'attuale strada camionabile, da Borzonasca a Santo Stefano, venne completata soltanto nel 1936.
E per la sua costruzione ( suddivisa in varie tratte ) occorse ben un secolo, poichè il primo lotto Chiavari - Borgonuovo venne realizzato nel 1834.
Ma per tentare di dipanare questo curioso intreccio viario-idrografico, nel quale, temo temerariamente, mi sono addentrato, dobbiamo focalizzare la nostra attenzione sulla situazione viaria agli inizi del Novecento.
La strada "camionabile" nel 1906 arrivava al valico della Forcella. Ed era già preventivato un ulteriore prolungamento almeno sino a Cabanne.
Eppure nonostante il sostegno dell'onorevole Cavagnari, autentico patrocinatore delle legittime aspirazioni dei valdavetani, non si riusciva a cantierare l'agognata opera. Le Istituzioni si nascondevano dietro l'esile paravento di un veto posto dall'allora Ministro della Guerra, Gen. Pedrotti, per mai compresi motivi di sicurezza e strategia militare.
Ma il vero motivo di questo ritardo, non tardò a rivelarsi in uno sciagurato progetto della
Società per le forze idrauliche della Liguria, con sede in Genova.
In base al quale si sarebbe dovuto ripristinare ( sic ! ) il lago di Cabanne con lo scopo di sfruttare le acque avetane per "creare una ingente forza idraulica".
Ma scorriamone qualche illuminante frammento.
Si prospettava la costruzione di una diga alta 44 metri (con uno spessore alla base di 36,60 metri) in località Masapello, "poco al disotto del punto ove il fossato di Villa Cella entra nell'Aveto."
L'altezza della diga, consentiva di portare la linea dell'invaso a 840 metri slm, generando un lago con una profondità massima di 40 metri.
Poco importava che i 54 milioni di metri cubi d'acqua ( il doppio dell'attuale invaso del Brugneto) andassero a sommergere le frazioni di Mileto, Farfanosa, Cabanne, Fratta, Case di Sopra, Moglia, Parazzuolo, Gragnolosa e parzialmente Priosa e Isoretta.
Il progetto (esecutivo, si badi bene) si limitava a riportare laconicamente la necessità di far sloggiare da 100 a 150 famiglie.
D'altronde i tecnici, pur ricordando l'opera di bonifica dei remoti abitanti, giustificavano il loro progetto di ripristino con queste parole: "L'arte lo restituirà allo stato antico, attribuendogli una potenzialità grandissima di produttività industriale che i viventi in quelle epoche remotissime non avrebbero saputo ricavarne."
Affermazione che si commenta da sola.
Comunque era del tutto evidente che l'ipotesi di prolungamento della strada (secondo il tracciato attuale) e il ventilato sbarramento dell'Aveto erano totalmente incompatibili. Furono anni di contrapposizioni polemiche e comunicati istituzionali, tanto rassicuranti quanto poco veritieri.
E quando il sospetto, che la Società genovese godesse di coperture politiche importanti, si trasformò in qualcosa di molto simile alla certezza, i valdavetani trovarono infine, la forza e la coesione necessarie per reagire.
I parroci di Rezzoaglio, Cabanne e Priosa si fecero promotori di un accorato ricorso al Gen. Pedrotti, per indurlo a togliere il veto alla prosecuzione della bramata strada.
Il testo della lettera (firmata anche dai "capi di famiglia" delle parrocchie interessate) era un lungo groviglio di retorica, buone ragioni ed evidenti ingenuità.
Per formulare un giudizio critico sulla sua consistenza, basterebbe osservare che i sacerdoti, motivavano la loro legittima avversione al progetto della diga, semplicemente con la necessità di modificare il tracciato della strada. Mentre non accennavano minimamente al devastante impatto ambientale, con conseguente sparizione di una decina di frazioni.
Comunque anche se non è possibile in questo contesto riprodurla integralmente, una breve sintesi può fornire al lettore, qualche elemento di valutazione oggettiva.
Ecco infatti come iniziava la medesima.
Eccellenza! Viviamo tra monti ove ancor non è giunto raggio alcuno di quella benefica civiltà che indora ogni vetta e che è vanto dell'Italia nostra aver prodotto; chiusa tutt'attorno ogni via alle sociali relazioni, al commercio, dovremo vederci condannati perpetuamente all'isolamento il più completo o prendere la via dell' esiglio maledicendo la patria matrigna?.
Ma insomma, anche i preti sapevano che non si vive di sola retorica e finalmente lasciato il fioretto, impugnavano (dando comunque alla prudenza tutto quello che si poteva) la spada.
Sappiamo inoltre che una società, non ultima origine dei nostri guai presenti e futuri... proponendo a questo ministero progetti di varianti e di gallerie... che porterebbero la strada a tali altezze che ne verrebbe escluso ogni abitato a totale beneficio delle fiere dei boschi
Non solo, ma le ingenuità a cui accennavo poc'anzi, appaiono irrefutabili nella spiegazione dell'avversione dei firmatari, verso le famigerate gallerie: "Le quali non avrebbero altra utilità che di offrire asilo sicuro ai ladri e agli assassini, con pericolo permanente della pubblica incolumità... ".
Comunque, pur con tutti gli evidenti limiti, questa lettera, smascherando le trame politiche e richiamando le Istituzioni alle loro responsabilità fu forse determinante per l' accantonamento di quel folle progetto.
Non dobbiamo tuttavia archiviare la strampalata storia del lago di Cabanne, come se la latente incultura ambientale e sociale avesse esaurito i suoi misfatti in quella lontana e riprovevole circostanza.
Anzi negli anni successivi, ci sono stati svariati tentativi di utilizzo delle acque avetane. E qualcuno è stato anche realizzato, sia nel torrente principale che nei suoi affluenti. Seppur con infrastrutture a moderato impatto ambientale. È certo tuttavia, che si tratta di un'annosa questione. Il crescente fabbisogno d'energia, la ricerca di fonti alternative e non ultimi, i rilevanti interessi economici che gravitano intorno alla disputa, formano un groviglio inestricabile di ragioni e contro ragioni.
Addentrarci in questo pur interessante, ambito, non rientra nelle tematiche di questo modesto contributo. Ma non posso sottrarmi dall'osservare che non ritengo applicabile all'ambiente il ben noto principio gestaldista, secondo il quale la globalità, l'olisticità di un elemento, non è uguale alla somma delle sue componenti, ma è qualcosa di a se stante, d'inscindibile, di non differenziabile nelle sue singole partizioni.
Ed è per questo che mi auguro che l'Aveto e i valdavetani possano continuare a fingere d'ignorarsi vicendevolmente, ma ben consapevoli in realtà, di essere, elementi fondanti ed indivisibili di un comune e bellissimo progetto.
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Pagina pubblicata il 3 agosto 2008, letta 13497 volte
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