Valdaveto.net > Caccia e pesca > La caccia al tempo dei nostri avi




La caccia al tempo dei nostri avi

di Guido Ferretti

Durante i secoli del dominio feudale sulle vallate dell'Appennino genovese, la caccia fu un diritto esclusivo del feudatario.
Nonostante la caccia fosse consentita esclusivamente a chi possedesse il benestare del signore (concesso a un numero limitato di sudditi privilegiati), i montanari cacciarono, ovviamente di frodo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi stagione.

Successivamente e per tutto il XIX secolo, sui nostri monti la caccia fu consentita a tutti e venne praticata in ogni stagione.
In quei tempi i cacciatori non erano molti. La maggior parte dei montanari non aveva i mezzi per comprare un fucile con il relativo munizionamento e coloro che possedevano un'arma non sempre potevano tralasciare il loro lavoro per dedicarsi alla caccia che, quindi, veniva praticata di preferenza durante l'inverno, quando cessava il lavoro nei campi.
Il fucile più usato nel XIX secolo era la doppietta del tipo avancarica con luminello a percussione.

La selvaggina stanziale presente nei territori della Val d'Aveto e della Val Trebbia comprendeva lepri, tassi, pernici rosse, tordi, merli, ghiandaie e molti uccelli di piccola taglia che non venivano cacciati.

Pernice rossa

Ingrandisci l'immagine

Era possibile incontrare anche fauna emigratoria ed uccelli quali la beccaccia ed il colombaccio.
Sui monti dell'Appennino genovese era presente, fino alla metà del XIX secolo, anche il lupo. I contadini d'allora, però, considerandolo il principale nemico delle greggi, iniziarono a cacciarlo in maniera talmente spietata da provocarne la scomparsa.
Anche la volpe era ritenuta animale dannoso e quindi veniva cacciata: a questo scopo solitamente venivano utilizzate le tagliole oppure i lacci.
Il cinghiale non era presente nelle nostre vallate: apparirà solo intorno al 1970.

La caccia preferita dai nostri avi era quella della lepre; raramente venivano cacciati i volatili.
La lepre presente nel territorio della Val d'Aveto e della Val Trebbia è, oggi come allora, la lepre comune.
Più grande della lepre sarda, la lepre comune può superare i tre chili di peso e, a differenza della lepre alpina, non muta il colore del manto durante l'inverno (mantiene sempre la stessa pelliccia fulvo-grigiastra mescolata di nero sul dorso).
E' un animale prevalentemente notturno, solitario, silenzioso e piuttosto legato al proprio territorio.
Durante il giorno la lepre rimane accovacciata in luoghi poco frequentati e mimetizzata il più possibile nell'ambiente che la circonda.
Animale selvatico senza alcun mezzo di difesa, la lepre ha nella fuga la sua unica possibilità di salvezza: l'energia dei suoi arti posteriori le permette di sviluppare una buona velocità anche in salita.
Pur avendo una vista poco acuta, l'ottimo udito e l'ottimo olfatto le consentono di percepire facilmente gli oggetti in movimento.

Il suo più acerrimo nemico, oltre l'uomo con il suo cane, è la volpe.
Un tempo fu anche il lupo.
Ogni sera, al calar delle tenebre, la lepre esce dal suo covo e si dirige verso la zona di pastura.
Predilige le radure ricoperte da tenera erba, oppure, durante i mesi freddi, i campi di grano da poco germogliato o le verdure rimaste negli orti: si muove sempre in spazi aperti in modo da poter facilmente avvertire l'arrivo dei suoi nemici naturali ed aver pronta la via di fuga.
Prima che giunga l'alba del giorno seguente ritorna al suo covo, posto in luogo asciutto, che sarà sempre lo stesso fino a quando, durante il giorno, non verrà disturbata, in tal caso per diversi giorni cambierà zona, ma in seguito ritornerà al solito posto.
Durante il rientro mattutino la lepre segue istintivamente certe astute regole per far perdere le sue tracce.
Dal luogo di pastura si allontana anche di un chilometro e poi ritorna nella stessa posizione percorrendo perfettamente lo stesso tragitto.
Questo può accadere più volte lungo direzioni diverse, con ritorno sempre sul luogo dove ho pascolato durante la notte.
Dopo si dirige verso il nascondiglio.
Giunta in vicinanza della meta, incomincia a fare una serie di lunghi salti (scarti, lunghi anche quattro metri) in direzioni diverse, infine, con un salto più lungo degli altri, raggiunge il suo covo e prende posizione girandosi verso la parte da dove è arrivata e così rimane fino alla notte successiva.
Naturalmente ci si domanda: ma come è stato possibile conoscere tutto questo?
Molto facile. Basta seguire le orme della lepre sulla neve.
Dirò di più. Quando sulla neve la lepre esegue gli ultimi salti prima di raggiungere il covo cerca di poggiare, al temine di ogni salto, tutte quattro le zampe in un solo punto dove non vi è neve per non lasciare tracce, generalmente accanto agli alberi, oppure sulle pietre non innevate dei ruscelli.

Lepre europea

Ingrandisci l'immagine

Si dice che, durante la giornata, la lepre dorma con gli occhi aperti.
La battuta di caccia alla lepre generalmente veniva fatta da tre o quattro cacciatori con l'ausilio di uno o più cani da caccia (la razza preferita era il segugio).
Uno dei cacciatori, il battitore, seguiva i cani mentre gli altri andavano ad appostarsi su posizioni dove la lepre, durante la battuta, sarebbe passata.
Alle primissime luci dell'alba iniziava la battuta.
Il battitore portava i cani sul luogo della pastura che lui, per esperienza o a seguito di precedenti osservazioni, ben conosceva.
I cani arrivati sulle fresche tracce del selvatico iniziavano ad abbaiare e fiutando cercavano di sbrogliare il groviglio dei percorsi che aveva fatto la lepre durante la notte.
In questa fase si poteva valutare l'abilità del segugio nello scovare il selvatico.
Il segugio d'esperienza non si perdeva lungo le tracce della pastura, ma iniziava a fare dei percorsi che circoscrivevano la zona (dare i tagli), durante i quali incontrava i percorsi a raggiera che la lepre durante la notte aveva simulato per confondere le sue tracce e presto trovava quello che portava al covo.
Quando il cane arrivava sugli scarti avvertiva l'avvicinarsi della preda e dava segni premonitori: proseguiva la ricerca con più insistenza e attenzione, in certi casi cambiava il modo d'abbaiare. La lepre, prima che il cane l'assalisse, partiva a grande velocità, possibilmente in salita.
Il buon segugio, certe volte, non vedeva il selvatico partire, ma lo percepiva col suo potente olfatto e si gettava all'inseguimento in quella direzione, intensificando il suo abbaiare. Tutti gli altri cani della muta prontamente lo seguivano ed iniziava la canizza.
La velocità di molti cani è superiore a quella della lepre, ma durante l'inseguimento essi sono svantaggiati dal fatto che devono procedere col naso a terra in modo da fiutare sempre l'emanazione dell'animale inseguito, quindi la lepre riesce a distanziarli e mettere in pratica tutte le astuzie per far perdere le sue tracce mediante i soliti scarti.
Se per caso l'inseguitore perde la traccia della lepre e non rientra su di essa prima di una diecina di minuti, la perde completamente, perchè non sente più l'emanazione del selvatico (questo tempo aumenta nelle giornate umide).
Strano, ma ciò non accade con le tracce che la lepre lascia durante la notte, esse possono durare oltre tre ore, dipende dalle condizioni del terreno.
La lepre inseguita si può allontanare dalla sua zona anche di diversi chilometri, ma se i cani continuano ad inseguirla rientra sempre nel suo territorio. Purtroppo quando essa, durante la sua fuga, capita sotto il tiro di una doppietta è la sua fine.
Raramente i cani continuano ad inseguire la lepre che si allontana ferita.
Per i motivi già accennati, la caccia alla lepre sui nostri monti si esercitava specialmente durante l'inverno, quindi nella maggior parte dei casi sulla neve.
Quando si cacciava la lepre su terreno innevato non era necessario l'ausilio del cane.
Il covo del selvatico veniva raggiunto seguendo le orme che la lepre aveva lasciato durante la precedente nottata.
L'avvicinamento alla preda richiedeva particolari accorgimenti che permettevano di trovarsi a tiro di schioppo quando l'animale partiva.
Fin dall'inizio del XX secolo questa caccia venne giustamente vietata.

 

Quanto sopra, lo scrivente ricorda d'averlo sentito raccontare, diversi anni fa, da suo nonno materno, nato nel 1872, appassionato cacciatore.
I disegni sono tratti da "La caccia", AA.VV., Dero Vallardi edizioni periodiche, Torino 1979

 


 

Commenti all'articolo inviati dai lettori

Sandro Podestà
28.11.2020 19.14
Mi sono casualmente imbattuto nella pagina "La caccia al tempo dei nostri avi" stilata da Guido Ferretti.
Vorrei essere capace di esternare la mia emozione superando il nodo che mi serra alla gola, ricordando quella che fu una fraterna amicizia nata prima tra colleghi in Ansaldo e proseguita attraverso le condivise ed indimenticabili giornate di caccia, entrambi cacciatori giustappunto in val d'Aveto e Trebbia.
Defatiganti giornate iniziate nelle albe gelide dell autunno nell'amalgama della squadra che inseguiva il cinghiale o la lepre ed insieme esultando per il successo conseguito congiuntamente, o appaiati nel silenzio dei boschi gelati cercando di scovare nell'erba scricchiolante di ghiaccio l'emozionante beccaccia, e poi godere estasiati dello spettacolo che i monti adamantini ci offrivano mentre il cane fumigante nello sforzo della sua corsa ci veniva incontro.
E quelli che vengono citati come scarti della lepre io li vidi personalmente durante una battuta con Guido ed altri della squadra.
Era una giornata di ottobre piovigginosa ed io, solo, ero in postazione in un valletto che segnava una probabile via percorsa dalla lepre, mentre lontano sentivo il latrare della muta che saliva dalla vallata sottostante.
Ad un tratto sentii il frusciare di un selvatico che correva nel sottobosco e d'improvviso la lepre mi sbucò ad una ventina di metri, sotto il mio appostamento.
Non mi mossi; immobile seguii la scena che si presentò ai miei occhi: incredibile.
La lepre, per la sua capacità visiva, non distingue un elemento immobile pertanto si slanciò in vari salti di notevole lunghezza in varie direzioni dopodiché, con l'ultimo salto, si pose su una piccola gobba del terreno, rivolta verso la direzione da cui proveniva il latrato del cane inseguitore più vicino che, proseguendo nella sua corsa, non la scorse neppure continuando oltre.
A quel punto, con il fucile che precedentemente tenevo imbracciato, le sparai. Forse anche un tantino a malincuore. Tornato con la mia preda in seno alla squadra si ritenne che il segugio inseguitore appartenesse ad altri cacciatori ai quali ovviamente consegnammo la lepre e, come tradizionalmente è d'uso, in cambio ne ebbi una cartuccia.
A lungo ne parlammo con il carissimo Guido.

 


 

Links



Pagina pubblicata il giorno 11 maggio 2006 (ultima modifica: 04.12.2020), letta 23344 volte
Per esprimere un commento su questo articolo si prega di contattare la redazione via e-mail