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Insurrezioni popolari in Val d'Aveto negli anni 1591-1592

Capitolo estratto da 'La Val d'Aveto - Frammenti di storia dal Medioevo al XVIII secolo', tipografia Emiliani, Rapallo 1998

di Massimo Brizzolara

Parimenti a quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno, anche la Val d'Aveto, sul finire del XVI secolo, fu costretta a subire le vessatorie gesta del suo don Rodrigo. Purtroppo, differenziandosi dall'oppressore di manzoniana memoria, in tutt'altre faccende affaccendato, il despota nostrano Giobatta Doria potè dedicarsi completamente allo scellerato mestiere di tormentatore.
Nel precedente capitolo l'ho descritto come un individuo violento e disinvoltamente iniquo, additandolo come il peggior esempio di autocratismo tardo cinquecentesco.
La severità di questo giudizio trae la sua legittimazione dalla rilettura oggettiva dei fatti che sconvolsero il feudo di Santo Stefano dall'autunno del 1591 alla primavera del 1592.
L'ampia e precisa documentazione, che ci fornirà l'indispensabile supporto testimoniale, è da ascrivere alla meritoria opera dello storico Leopoldo Cimaschi, che nel 1955 ha riesumato dall'Archivio Storico di Genova uno straordinario epistolario relativo a quel biennio, e all'essenziale cronaca degli avvenimenti di quell'epoca, raccontata dall'annalista genovese Antonio Roccatagliata.
Dopo questa doverosa premessa, inoltriamoci in questa esaltante pagina scritta dai nostri padri.
Giobatta risiedeva già da molto tempo in Val d'Aveto quando, nel 1577, morendo suo padre Antonio, venne insignito del titolo di marchese di Santo Stefano. Ma l'investitura feudale necessitava del sigillo imperiale di Rodolfo d'Asburgo, che giungerà soltanto nel 1584.
Appena raggiunta la pienezza (anche formale) del potere, il nuovo feudatario non tarderà a rivelarsi per quello che era: un tiranno.
La tracotanza e l'innata avidità lo porteranno, contro ogni logica, a voler incrementare le entrate fiscali in denaro.
E pur di ottenere questo risultato non esitò ad imporre ai sudditi le gabelle più insopportabili.
Dalla sera alla mattina, istituì una licenza di macellazione, attività peraltro praticata su scala ridottissima, ma la comunità dovette comunque pagare 2.000 scudi; altrettanti ne pretese per autorizzare la vendita del sale.
Espropriò alcuni mugnai dei loro mulini e costrinse tutti a macinare in quelli di sua proprietà, ma ad un prezzo raddoppiato rispetto alle normali tariffe.
Ripristinò l'odiosa usanza delle corvè di malaspiniano ricordo, costringendo a lavorare, praticamente senza corrispettivo, i mulattieri e gli addetti alle ferriere e segherie di sua pertinenza.
Anche nei rapporti con la prestigiosa signoria di Rezzoaglio, l'insofferente Giobatta riverserà tutta la sua arroganza, con il risultato di produrre una frattura insanabile. Ad onor del vero, esisteva da molto tempo una delicatissima controversia tra i Doria e i Della Cella, relativa alla spartizione dei pedaggi daziali sulle merci in transito nel feudo.
Suo padre Antonio, nel tentativo di porre fine all'annosa disputa, il 9 maggio 1549, assistito dal notaio genovese Giacomo Cibo, aveva ratificate la riscossione del dazio nella misura di un terzo alla famiglia Della Cella - Rezoagli.

Incurante di questo documento lo spregiudicato Giobatta, per continuare a riconoscere questo diritto, pretese il pagamento di 500 scudi; non solo, ma ne reclamò altri mille solo perché alcuni esponenti di questa signoria si erano allontanati da Rezzoaglio senza il suo permesso.
Chi avesse provato ad opporre anche la più timida resistenza a queste angherie, si sarebbe esposto inevitabilmente alla sgradita visita dei suoi bravi, assoldati tra i delinquenti peggiori di quel tempo.
Il clima che aleggiava in tutto il marchesato era di autentico terrore.
Ma la mattina del 30 settembre 1591, gli abitanti di Santo Stefano decidono che la misura è colma e passano alle vie di fatto.
Giobatta non si trova in Val d'Aveto, presumibilmente è a Genova.
Nel borgo lo rappresentano il castellano e il commissario feudale, tale Giovanni Botto di Borzonasca.
Saranno i primi a cadere, sotto i colpi furiosi di una timorata folla di contadini, che solo il sopruso, elevato a sistema di governo, ha potuto trasformare in una forza disperata e incontrollabile.
Il castello è occupato in uno stato di sbigottimento e concitazione palpabili. Ma dimostrando subito una notevole dose di realismo e buon senso, gli esagitati insorti non cedono alle lusinghe della chimera di un direttorio popolare autonomo.
Comprendono prontamente che l'unica strada percorribile per non vanificare questo romanzesco moto insurrezionale, è quella di assoggettarsi ad una nuova signoria, e bisogna farlo nel più breve tempo possibile. Un maggiorente del paese, Sebastiano Raggio, verga a spron battuto due lettere.
La prima è indirizzata al Senato della Repubblica di Genova ed inizia con l'implicazione nelle responsabilità della "Maestà Divina", che avrebbe fornito il necessario "aggiuto" alla comunità per scrollarsi "questo gran giogo dalle spalle".
Il buon relatore prosegue cercando astutamente di ridimensionare i sanguinosi fatti della mattinata, non menzionando l'uccisione del castellano e confessando solo quella del commissario Botto, "homo di malissima vita dal quale siamo sicuri che bona parte di detti mali cascavano sopra di noi per mossa sua".
Lo scritto si conclude con la supplica al Senato di non abbandonarli e di accettarli come sudditi, ma soprattutto s'insiste sulla necessità di farlo subito, perché "la cosa ha bisogno di prestezza".
Stilata la lettera, bisognava recapitarla; era presente, in quel memorabile giorno a Santo Stefano, un cittadino genovese, tale Pietraroggia, che, probabilmente desideroso di fregiarsi di qualche merito al cospetto dell'illustre destinatario, volentieri accetta l'incombenza e, montato a cavallo, letteralmente s'invola verso Genova.
Nel frattempo, nutrendo molti ragionevoli dubbi sui risultati della missiva, Raggio ne scrive una seconda, questa volta indirizzata a Pietro Francesco Malaspina, marchese di Gambaro.
Nella parte iniziale descrive i fatti esattamente come nell'altra, ma prosegue confessando che "dubbitando noi d'esser soprapresi alla sprovvista dal Ser.mo Senato di Genova per esser vicino et anco il Gio Batta suo patriotto... Qualora havesse forze da poterci in ciò sovenire l'animo di noi tutti sarebbe acceso verso di lei...".

La lettera continua prendendo anche in considerazione la fondata ipotesi che il Malaspina non abbia la forza necessaria all'azione e recita "s'arrembi dove le pare perché il primo che verrà che pur desideriamo lei, quello terremo per nostro padrone".
Dopo la data e la firma viene apposta una postilla che definire incredibile è dir poco. Raggio sostiene di aver pensato di inviare un messaggio uguale al generale Alessandro Farnese, Principe di Parma, e di non averlo fatto solo perché non sa dove rintracciarlo.
Ma qualora il Malaspina rinunciasse all'impresa, potrebbe lui stesso far per venire al Principe la presente, "la quale sarà comune ad ambodoi".
Giudichi il lettore se in questo singolare comportamento prevale maggiormente la doppiezza o l'ingenuità.
Questa lettera (non sappiamo a chi venne affidata) non frutterà che un moderatissimo coinvolgimento del Malaspina, tutt'altro che entusiasticamente propenso a misurarsi con i Doria e la Repubblica di Genova.
Mentre il Pietraroggia, dimostrandosi abilissimo cavaliere, alle ore quindici di quello stesso giorno aveva già portato a compimento la sua ambasciata.
Contagiato da tanta celerità, il governo di Genova accetta subito l'offerta della comunità di Santo Stefano, premurandosi di far pervenire il giorno dopo ai valdavetani, un rassicurante scritto di questo tenore: "Verrà costì persona in nome nostro con sufficiente auttorità à prendere il possesso del luogo".
Contemporaneamente il Senato delibera di ufficializzare una trattativa con il Doria per definire l'alienazione del feudo.
Per non smentirsi, Giobatta non si dichiara contrario alla vendita del marchesato, ma ne fa una questione di prezzo!
"Che si pigli il possesso del luogo di Sa)i Stefano à nome della Repubblica per doverlo tenere in nome di deposito e restituire poi al Sig.re Gio Batta De oria come cosa sua".
Questa strana annotazione, aggiunta da una mano ignota in calce alla proposta di Santo Stefano, ha alimentato molte perplessità sulle reali intenzioni di Genova.
Personalmente sono arrivato alla conclusione che la Repubblica desiderasse sinceramente (e per molti validi motivi) annettere la Val d'Aveto al suo territorio, ma d'altronde il peso dei Doria nel consiglio cittadino impediva che la cosa avvenisse, con grave pregiudizio per Giobatta.
La persona con "sufficiente auttorità" inviata dal Senato genovese a commissariare Santo Stefano era il dottor Giovanni Battista Pietra.
Questi parte da Rapallo il 2 ottobre, alle ore sedici, seguito da un centinaio di soldati corsi (milizie francesi al servizio della Repubblica) e preceduto da una staffetta che prudentemente aveva spedito in ricognizione.
In quali condizioni versasse la riviera, dopo la peste del 1580, ma soprattutto dopo la terribile carestia del 1590, è facilmente intuibile dalla precaria resistenza fisica dimostrata da queste truppe agli ordini del dottor Pietra.
Infatti, dopo un viaggio reso difficoltoso dalle pessime strade e dalla pioggia battente, giunto alla Ventarola verso l'una di notte, lo stesso commissario, in una lunga lettera inviata a Genova, dovrà ammettere di "essersi lasciati a dietrododeci soldati abbattuti di stracquà e di febre per li boschi".

Tutto il drappello viene comunque fermato sui confini della giurisdizione dai contadini, trasformati nell'occasione in solerti sentinelle. Solo dopo aver parlato con due "officiali", l'inviato della Repubblica potrà entrare nel territorio del marchesato, ma soltanto con una dozzina di soldati al seguito.
Rispediti tutti gli altri a Borzonasca, il dottor Pietra decide di pernottare a Cabanne, per proseguire il viaggio all'indomani.
Nella lettera sopraccitata, il commissario informa il Senato di aver appreso dalla popolazione che il borgo di Santo Stefano era ancora in gran subbuglio e giustifica il suo atteggiamento remissivo nei confronti degli altri insorti, con la necessità, a suo dire, di ricorrere più alle parole e alla persuasione che non alla forza, stante il diffuso convincimento tra i sudditi che Genova stesse tramando con Giobatta a loro danno.
Erano intanto trascorsi tre giorni da quell'indimenticabile giorno di San Michele e come era prevedibile, sbollita la rabbia e con la corposa speranza di essersi liberati del Doria, la maggior parte dei contadini sarebbe tornata volentieri a svolgere le consuete mansioni e caldeggiava un ritorno alla normalità nel minor tempo possibile.
Ma un manipolo di irriducibili, comandati da un prete molto particolare, don Aurelio Bertuzzi, si era trincerato nel castello ed era ben deciso a non capitolare. Quando finalmente arriva a Santo Stefano, il dottor Pietra, attenendosi ai pacifici proponimenti che si era imposto la sera innanzi a Cabanne, chiede ai rivoltosi di dettare le condizioni che ritengono necessarie per decidersi a consegnare il castello.
Dopo un lungo consulto, durato circa quattro giorni, don Bertuzzi formula queste richieste: il non ritorno dei Doria, un'esenzione fiscale generalizzata per due anni, una sanatoria per i banditi, la restituzione dei beni espropriati alla famiglia Della Cella da Giobatta, ma soprattutto la distribuzione agli occupanti di ben 4.000 scudi e la possibilità di allontanarsi indisturbati.
Nell'attesa di una risposta, don Bertuzzi con il suo truce chierichetto, tale Tasso, pensano bene di impiegare proficuamente il tempo, scrivendo una lettera al marchese Malaspina di Edifizi, per indurlo a trattare l'acquisizione del feudo. 'Il messaggio viene intercettato senza difficoltà dal dottor Pietra, che naturalmente informa i suoi superiori; la Repubblica sente puzza di bruciato, e si cautela mettendo in viaggio verso la Val d'Aveto duecento soldati agli ordini di un uomo temprato e prestigioso come il procuratore Agostino Spinola.
Nel frattempo, Genova invita il Pietra ad offrire la metà della somma richiesta; offerta ovviamente e sdegnosamente rifiutata dalla cricca del Bertuzzi.
Ma il commissario, forse temendo che il Senato volesse solo temporeggiare nell'attesa dell'arrivo dei suoi soldati, pungolato nell'orgoglio, inventa la mossa risolutrice. Pur disponendo di soli dodici uomini ed operando in un ambiente tutto sommato ostile, riesce a catturare alcuni parenti degli occupanti e minaccia decisamente d'impiccarli.
Come per incanto, il ponte levatoio si abbassa e i facinorosi si arrendono; lo Spinola, raggiunto durante il viaggio dalla notizia dell'avvenuta capitolazione, ben volentieri se ne ritorna a Genova.

L'atto di resa viene rogato dal notaio Ottaviano Corrigia nel castello di Santo Stefano, la sera del 31 ottobre 1591. La Repubblica accetta tutte le condizioni dettate dai rivoltosi, tranne logicamente la richiesta in denaro, e riceve formal-mente le chiavi della fortezza valdavetana.
Lo stesso notaio redigerà l'ordinanza di un rinfrancato dottor Pietra, che imponeva a "ogni striglila persona di qual si voglia stato grado e conditione si sia maggiore di XIIII anni, che per tutti li 2 di novembre prossimo comparanno innanzi a sua S.ria P.ma a giurar la fedeltà alla Ser.ma Repubblica di Genova".
Pesantissime le sanzioni per i renitenti: la confisca di tutti i beni, con la conseguente espulsione da tutti i territori del genovesato.
In questo momento solo la permanenza di una incognita impedisce di considerare conclusa, con reciproca soddisfazione delle parti, l'intricata vicenda.
Si tratta della definizione dell'indennizzo da corrispondere al Doria, ma realisticamente il Senato non lo ritiene un ostacolo insormontabile.
Invece sul cielo di Genova si addensano nuove e minacciose nubi; sono i segnali poco incoraggianti che giungono dall'entourage imperiale.
Infatti, secondo autorevoli fonti, pare che l'imperatore sia abbastanza contrario a concedere il suo benestare alla vendita del feudo di Santo Stefano.
A questo punto il Senato genovese commette un errore madornale; anziché affrettare i tempi, per mettere l'autorità asburgica di fronte al fatto compiuto, tergiversa, considerando queste voci come un espediente messo in atto da Giobatta ailo scopo di lucrare sul prezzo di vendita.
La Repubblica, iniziando dunque un gioco al ribasso al cospetto di una controparte per sua natura abituata a giocare al rialzo, fiaccherà a tal punto la trattativa da decretarne il lento ma inesorabile tramonto.
Giobatta reagisce inviando un suo incaricato, Gerolamo Maragliano, presso la corte spagnola a perorare la sua causa.
I risultati di questa ambasciata saranno clamorosi, andando ben oltre le intenzioni del suo committente.
Una lettera dell'imperatore Rodolfo II intima al Doria di sospendere ogni trattativa e ordina alla Repubblica di restituire senza indugi il feudo al marchese Giobatta.
Da Genova parte un diplomatico alla volta di Praga per tentare di ricucire lo strappo: non ci riesce. Il 22 febbraio 1592, già sulla via del ritorno, manderà una lettera al Senato, anticipando le ragioni che hanno portato alla dura reazione cesarea.
In pratica l'imperatore non può acconsentire al passaggio di un feudo di sua competenza alla Repubblica di Genova, per non infliggere un dispiacere troppo grande al suo amico Filippo II, re di Spagna, nemico giurato del governo genovese.
II diplomatico aggiunge addirittura di aver compreso che, se Giobatta decidesse di alienare il feudo ad un qualsiasi altro compratore, non ci sarebbero veti
di nessun tipo.
L'offesa è grande; se ne discute vivacemente in Consiglio, ma nonostante il voto contrario di qualche falco, come si direbbe oggi, prevalgono le colombe: Genova accetta l'imposizione imperiale.
L'ingrato compito di comunicare la decisione al popolo di Santo Stefano viene affidato a Francesco Chiavega. Il pover'uomo, quando arriva al paese,
trova quasi tutte le case abbandonate.

Gli abitanti (evidentemente già al corrente dei fatti) sono fuggiti in massa.
Alcuni hanno trovato rifugio, sconfinando nel parmigiano o nel piacentino, ma la maggior parte si è nascosta nei boschi.
Tutti comunque si sono portati seco ogni avere, animali e attrezzi compresi.
Ai pochi rimasti, il malcapitato Chiavega tenta di spiegare che la Repubblica non ha colpe da rimproverarsi per quanto è accaduto.
E per dimostrare la sincerità di quanto afferma, rassicura gli astanti che il governo di Genova intercederà presso Giobatta per indurlo a concedere un perdono generale.
Quest'ultimo, rimesso incredibilmente in sella dall'Imperatore, evita accuratamente di farsi vedere da chi lo aveva così coraggiosamente disarcionato.
11 27 maggio 1592, davanti al notaio Giulio Bacigalupo di Genova, autorizza con un'ampia procura il suo fiduciario, Simone Centurione, a riprendere possesso del feudo.
Le formalità burocratiche, relative all'insediamento del nuovo commissario donano, sono espletate dal notaio genovese Giovanni Battista Carbone la sera del primo giugno 1592, nel praticamente deserto paese di Santo Stefano.
Il notaio, alla presenza di Sebastiano Raggio, del "maestro e chirurgo"Pompeo Licetto Giacomo, con la prolissità tipica del tempo, scriverà una lunghissima relazione, semplicemente per certificare l'avvenuto passaggio di consegne tra il Chiavega e il Centurione.
L'utilizzo nella stesura del latino, al posto dello sgrammaticato volgare, che abbiamo incontrato nelle molte citazioni virgolettate di questo capitolo, lascerebbe intendere che il documento era destinato a portare il suo messaggio ben oltre l'ambito genovese, forse addirittura allo stesso Rodolfo II.
Quando, la mattina del 7 giugno, i fedeli si recano alla messa domenicale, trovano una brutta sorpresa.
Sulla porta di tutte le chiese parrocchiali è stata appesa una lettera pubblica di Giobatta Doria.
Il marchese annuncia che "per inspiratione divina et anche a richiesta del Ser.mo Senato di Genova" ha deciso "di far e concedere generale indulto e perdono a tutti li suoi sudditi e vassalli di San Steffano e tutta la sua giurisdizione per la rebellione... ".
Solo otto sovversivi non possono essere perdonati e sono: Giacomo Tasso, Lorenzo Tasso, il prete Aurelio Bertuzzi, Antonio Bernero, Paolo Geronimo Cella, Annibale Cella, Antonio Cella notaio.
A tutti gli altri abitanti del feudo, Giobatta raccomanda, nel termine di quin dici giorni, di "ritornarsene a caso loro allegramente e senza alcuno sospetto assicurandoli sua S.ria molto III.re che saranno ben trattali acarezali et abraciati et gli sarà fatta ogni gratia lecita e honesta".
Il tutto perché è vivo desiderio del marchese che "siano trattati da buoni vassalli e con amore e carezze e possano goldere in pace e quietamente corno facevano prima della rebellione".
L'effetto che produsse sui fedeli questo paradossale comunicato che, a causa dell'imperante analfabetismo,venne verosimilmente decifrato dai sacerdoti,lo si può facilmente immaginare.

Si erano avviati alla santa messa con molti dubbi sul da farsi, ne uscivano con le idee chiarissime e questa volta non per merito dei buon Dio.
La cocente delusione che avevano provato, ascoltando il luttuoso Chiavega, venuto a portare la notizia del ritorno del tiranno, si diradava velocemente, come le nebbioline estive sull'Aveto, lasciando il posto ad una sempre più concreta speranza di poterlo nuovamente sconfiggere.
Ma per non rendere del tutto inutile quel glorioso 30 settembre 1591, bisognava trame qualche precetto da spendere nel tentativo d'evitare il reiterarsi di errori già dolorosamente pagati.
E dimostrando una volta di più che si cresce anche in base ai problemi che si è costretti a risolvere, per prima cosa si conviene che le famiglie dovranno continuare a vivere nei casoni ancora per qualche tempo.
Il loro disagio servirà ad evitare che la cattura di qualche parente possa fornire ai Doria una micidiale arma di ricatto.
Non solo, ma la necessaria supplica alla ricerca di sostegno e protezione, questa volta dovrà essere indirizzata ad un ben definito destinatario, meglio se autorevole e motivato.
La scelta cade sulla famiglia Farnese, ritenuta abbastanza potente sia sul piano economico, sia su quello militare.
Politicamente è legata alla Francia, per cui si può presumere non sia particolarmente afflitta dalle disavventure dei Doria.
Non si perde tempo e un'anonima delegazione di Santo Stefano è accreditata a trattare l'immediata annessione della Val d'Aveto al ducato di Parma.
Non trovando il principe Alessandro, trattenuto in territorio francese da importanti incarichi politici, dovranno accontentarsi di un interlocutore comunque prestigioso come il cardinale Farnese.
L'interesse dimostrato inizialmente dall'alto prelato parmense è molto tiepido, ma agli euforicamente determinati valdavetani appare rovente.
Nel paese intanto, attingendo a piene mani nelle più recondite riserve di coraggio, la popolazione assalta il castello.
All'interno della fortezza rimane di fatto imprigionato il commissario Simone Centurione, assistito da pochissimi uomini e confortato da ancor meno viveri. Giobatta, per la prima volta dall'inizio della rivolta, è costretto ad intervenire direttamente: lo fa da par suo.
Incarica suo cugino Francesco Fiesco di arruolare una cinquantina di "uomini di mala vita", tra i quali il più malavitoso di tutti, tale Formaggino, da inviare "tutti alia volta di Castel Santo Stefano, con munizioni e viveri e da combattere, acciocché facessero il tutto per introdurvisi".
L'angelica comitiva, quando arriva a Borzonasca, decide di proseguire il viaggio seguendo la strada che da Sopralacroce, passando per il Pratomollo, l'Incisa e il Chiodo, scendeva a Roncolongo.
La scelta (non certo casuale) risulterà particolarmente felice perché, evitando l'attraversamento dei paesi della giurisdizione, l'inattesa brigata potrà raggiungere Santo Stefano senza colpo ferire.
Per descrivere, senza retorica, l'effetto taumaturgico che la visione di quelle canaglie cagionò sugli assediati, affidiamoci alla scarna ma efficace cronaca del Roccatagliata: "Simone Centurione e Marco Antonio Bellocchio, i quali vi si trovavano dentro, scorta la giunta degli amici e delle vettovaglie, sapendo che gli improvvisi assalti sono di tanto in tanto spavento a' nemici, clic nelle battaglie spesse volte gli eserciti intieri sono stati sconfitti da poco numero di soldati ... uscirono alquanti di loro dal castello e congiuntisi col Formaggino si azzuffarono con quei popoli; quali ogni ora più induriti nell'ostinazione loro, coll'aiuto ancora di alquanti banditi pur genovesi, valorosamente combattendo, li ruppero affatto ed uccisero la maggior parte di loro...".
L'annalista prosegue il svio racconto sostenendo che "ritrovaronsi in quella battaglia dall'una parte e dall'altra assai banditi genovesi, essendo con quei popoli collegati li Marrè di Valdesturla con li amici e aderenti loro e col Formaggino la parte avversa".
Sulla documentata e massiccia presenza di briganti genovesi, nell'infuocata arena di Santo Stefano, in quell'imprecisato giorno del lontanissimo giugno 1592, reputo storicamente utile proporre al lettore qualche osservazione.
Innanzitutto nella ricerca delle motivazioni che portarono gli uomini del Marrè a fronteggiarsi a colpi d'archibugio con la genia del Doria, non ritengo sostenibile l'ipotesi di un'azione cavalieresca, intrisa di buoni sentimenti, a sostegno degli insorti in difficoltà. È certamente più verosimile ricondurre la loro condotta al meno nobile, ma più realistico regolamento di conti tra bande rivali.
Ma sarebbe estremamente ingeneroso ed ingiusto ridurre ad una volgare faida tra malavitosi questa commovente epopea popolare, mirabile alternanza di imprecazioni e preghiere, di paura e coraggio, di fiducia e disperazione.
Non si può tuttavia escludere che questa estemporanea unità d'intenti tra i valdavetani e la masnada genovese possa essere stata in qualche modo determinante per sconfiggere gli armati di Giobatta.
Infatti il Formaggino, con i pochissimi scampati, sarà costretto a risalire precipitosamente la stessa strada che aveva poco prima spavaldamente disceso.
La notizia dell'imprevedibile affermazione del popolo di Santo Stefano è il classico fulmine a ciel sereno.
Scrive il Roccatagliata: "In questi rumori s'intese in Genova che quelli uomini non confidavano più di avere aiuto dalla Repubblica per la potenza delli Doria che si opponevano e trattarono accordo col duca di Parma".
Pur tuttavia nel Consiglio Minore si discute dell'opportunità di un nuovo intervento genovese in Val d'Aveto. Prevale il partito dei rinunciatari e se ne possono intuire le ovvie ragioni.
In effetti, sarebbe stato molto più incomprensibile un nuovo coinvolgimento nella stessa impresa, abbandonata poco tempo prima con gravissimi danni economici e politici. Nel frattempo il cardinale Farnese, che era rimasto laconicamente ad osservare l'evolversi dei fatti, si ritrova nella fortunata condizione di poter raccogliere senza aver seminato.
Pur senza esporsi personalmente, invita i valdavetani a ricorrere al governatore di Parma, Mario Farnese, dove troveranno tutto quel sostegno di cui abbisognavano molto tempo prima.

A questo punto solo un evento prodigioso può impedire l'annessione della Val d'Aveto al ducato parmense: e il miracolo avviene.

Il discusso ammiraglio Gian Andrea I è fulmineo nel cogliere l'ultima occasione per non far perdere definitivamente il marchesato alla sua dinastia.
Incontra a Chiavari Gio Batta Doria e prontamente gli corrisponde il prezzo convenuto per la vicenda del feudo (rogito notaio Leonardo dell'll agosto 1596). Nella veste di nuovo legittimo feudatario, invia subito un suo agente, tale Giovanni Battista di Nicolò, a trattare con gli insorti.
Ricorda il Roccatagliata: "Sapendo essi quanto gli altri sudditi del Principe siano amorevolmente trattati si risolsero senz'altro di appoggiarsi a lui e così si accordarono insieme".
Interrotto ogni negoziato col Farnese, gli abitanti di Santo Stefano avanzano essenzialmente solo due richieste irrinunciabili: non cadere mai più nelle mani di Gio Batta Doria e il ripristino delle imposizioni fiscali che avevano al tempo di Antonio Doria.
Gian Andrea I non avrà difficoltà né a promettere né a mantenere. L'inusitata tempestività con la quale l'imperatore Rodolfo II, il 10 dicembre 1592, ratificherà la vendita, sarà la migliore dimostrazione che, almeno per una volta, gli interessi e la volontà popolare coincidevano con quelli lontanissimi di sua "maestà cesarea".
Si concludono così i dieci mesi più straordinari, ma anche più tormentati, di tutta la storia del marchesato di Santo Stefano.
Ma chissà per quanti anni quei memorabili fatti avranno continuato a perpetuarsi, nelle leggendarie rievocazioni, consumate intorno al braciere nelle lunghe veglie invernali.

 


 

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Pagina pubblicata il 2 agosto 2008 (ultima modifica: 01.09.2008), letta 4984 volte
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